STUDIO LEGALE
SCAFETTA

La mediazione familiare come procedura alternativa per il trattamento dei conflitti coniugali

A cura dell'Avv. Salvatore Pesce

 

1. Mediazione e mediazione familiare

La mediazione comprende tutti i casi in cui un terzo, non necessariamente un singolo individuo, interviene in una disputa o in conflitto al fine di ricomporla e non di deciderla. Per disputa o conflitto si intende non necessariamente una controversia (intesa come lite giudiziaria), ma più in generale qualsiasi conflitto che sia diventato ingestibile da parte degli stessi protagonisti, i quali sentono la necessità dell'intervento di un terzo soggetto.

Su queste premesse, si può parlare di mediazione in un numero di fattispecie molto ampio e variegato: dagli ombudsman utilizzati da molte imprese per fronteggiare i reclami dei consumatori, alla mediazione penale; dall'intervento di un poliziotto in una lite familiare, alla procedure per la composizione delle controversie sui luoghi di lavoro; dalla mediazione di quartiere, realizzata in molte grandi città, fino alle trattative condotte informalmente dagli avvocati per la transazione di una lite (1).

In una dinamica più strettamente giuridica, la mediazione sarà da intendersi come quel processo, relativamente formale, gestito da una o più persone neutrali di fiducia (2) che intervengono in una disputa su richiesta delle parti e al fine esclusivo di permettere loro di confrontare i rispettivi punti di vista e di cercare con il loro aiuto una soluzione al conflitto che le oppone (3).

Di certo, la prima essenziale distinzione da operare è tra mediazione e conciliazione. La mediazione è disciplinata dal codice civile all'art. 1754 ss., secondo cui il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da un rapporto di collaborazione, dipendenza o rappresentanza. Si parla di conciliazione anche nel codice civile, ma con riferimento ai tentativi obbligatori di conciliazione (ad esempio in sede di udienza presidenziale o nel rito del lavoro).

Pertanto, appaiono prima facie le principali differenze tra i due istituti: in primo luogo, la mediazione avviene al di fuori delle aule di giustizia, mentre la conciliazione ha natura endoprocessuale e viene tentata dal giudice; inoltre, la mediazione ha ad oggetto la comprensione delle relazioni interpersonali (si parla di mediazione familiare, ambientale, sociale, turisistica) mentre la conciliazione ha prima un oggetto economico e poi affronta la relazione tra le parti (si pensi alla conciliazione societaria, bancaria o finanziaria e alle conciliazione in materia di telecomunicazioni) (4).

Ad ogni buon conto, la mediazione può farsi rientrare nel novero delle cosiddette ADR (Alternative Dispute Resolution), acronimo che sta ad indicare i metodi alternativi di risoluzione delle controversie.

Si tratta di una serie di tecniche e procedimenti (ad esempio, la mediazione, la negoziazione, l'arbitrato) di risoluzione di controversie di tipo legale attinenti diritti disponibili, alternative rispetto al giudizio amministrato dagli organi giurisdizionali pubblici. In epoca moderna, il ricorso alle ADR di è affermato prima nei paesi anglosassoni, a partire dagli Stati Uniti.

A partire dal 1970 negli Stati Uniti si cominciò a ricercare metodi non giurisdizionali di gestione dei contenziosi. Successivamente queste tecniche sono sbarcate in Europa, dove le prime esperienze appartengono agli ordinamenti scandinavi e anglosassoni (5).

La mediazione familiare, si sviluppa parimenti negli Stati Uniti, nell'ambito delle ADR, sulla base di una riflessione condotta in ambito legale, sull'inadeguatezza dei consueti strumenti contenziosi a gestire i conflitti interpersonali tipici della crisi coniugale.

In particolare si osservò che, soprattutto in presenza di figli, i rapporti tra coniugi separati o addirittura divorziati non si interrompono definitivamente, ma sono inevitabilmente destinati a proseguire. In questa prospettiva, qualunque assetto dei rapporti familiari che non sia accettato in maniera spontanea e responsabile da ciascuna parte, ma sia imposto autoritariamente dal giudice, corre il rischio di essere tutt'altro che risolutivo e di costituire soltanto la base di nuove incomprensioni e di reciproche tensioni (6).

Dagli Stati Uniti, la sperimentazione delle nuove tecniche di mediazione familiare si diffonde rapidamente in tutto il mondo occidentale, approdando in Europa negli anni Ottanta, quando anche in Italia nascono le prime esperienze (7), mentre i primi riconoscimenti normativi a livello europeo si hanno dagli anni Novanta.

Infatti, in alcuni Paesi europei, la possibilità che i coniugi recuperino, nel corso dei giudizi di separazione o divorzio, l’accordo necessario per stabilire la maggiore condivisione possibile dell’iter e delle condizioni di separazione, è regolata legislativamente. Si tratta di uffici costituiti ad hoc che promuovono un’intesa, omologata e passibile di sanzione giudiziaria, sui rapporti tra le parti successivi alla separazione e al divorzio.

Il sistema francese, ad esempio, affida all’avvocato dei coniugi il compito di informarli sulla possibilità di avvalersi dei servizi di mediazione per essere aiutati nella negoziazione dell’oggetto di un provvedimento alimentare o di custodia dei figli.

È previsto che il giudice possa, in qualsiasi fase della causa e su richiesta di entrambe le parti, sospendere l’istruzione per un certo periodo di tempo ed inviare le parti al servizio di mediazione familiare oppure ad un mediatore da esse scelto con il compito di aiutare i coniugi a concordare le modalità di custodia dei figli minori e di corresponsione degli alimenti ad uno di essi o ai figli o per altre questioni di ordine patrimoniale (8).

Il mediatore è, in tal caso, chiamato a redigere un rapporto in cui elenca i punti su cui c’è un accordo tra le parti. Il giudice, di conseguenza, verifica se tale intesa salvaguardi l’interesse dei figli e si assicura del consenso dei coniugi ascoltandoli personalmente, prendendo i provvedimenti sulle intese raggiunte.

Ne discende una disciplina nel suo complesso intesa a promuovere la mediazione in qualsiasi controversia familiare e ad ammettere che venga praticata come attività professionale retribuita. Il legislatore francese ha considerato la mediazione come uno strumento in grado di porre fine alle controversie; ove, infatti, fosse raggiunto l’accordo, esso viene sottoposto all’omologazione del Tribunale ed acquista efficacia esecutiva (9).

Nell’ordinamento anglosassone, il Family Law Act del 1996, che disciplina la normativa in materia di diritto di famiglia, prevede che possa essere sottoposto a mediazione qualsiasi conflitto in materia familiare, inserendo la mediazione familiare tra le attività meritevoli di sostegno in quanto servizio tendenzialmente gratuito di assistenza legale ai non abbienti. Il mediatore è una persona scelta dal Legal Aid Board ed a questo vincolata da un contratto che la obbliga ad osservare un codice di condotta che la garantisca che la mediazione avvenga col consenso delle parti, non viziato da violenza o minaccia e che vi sia l’effettiva possibilità di riconciliazione tra di esse ed ognuna di queste venga informata della possibilità di fruire di autonoma consulenza legale (10).

Il legislatore inglese ha previsto, come precondizione per l’emanazione di una pronuncia di separazione o di divorzio, un fase stragiudiziale all’insegna della ricerca di una soluzione conciliativa che prescinda da qualsiasi forma di assistenza legale.

L’iter da seguire per ottenere un provvedimento di divorzio è dunque obbligato. Il percorso ha inizio con l’information meeting (incontro informativo) che ha il precipuo scopo di fornire alle parti informazioni relative ai servizi di supporto del matrimonio, alla tutela e benessere dei figli, alle forme di protezione previste contro atti di violenza domestica e alle questioni economiche da affrontare durante il procedimento. Le parti sono infine informate della possibilità di ricorre al gratuito patrocinio e alla mediazione familiare (11).

Le parti, una informate separatamente, possono decidere di procedere alla cosiddetta automediazione, ossia la pianificazione della crisi coniugale liberamente concordata dalla coppia, senza l’intervento di terzi, che si realizza attraverso l’elencazione negoziale dei reciproci diritti e doveri successivi alla separazione o al divorzio (12); oppure alla eteromediazione, ossia alla mediazione tramite un soggetto estraneo al rapporto coniugale volto a facilitare la composizione dei dissidi insorti tra i coniugi, anche semplicemente attraverso incontri informativi e consultivi.

In questi casi il Family Act dispone che il giudice, allorquando riceva la dichiarazione dei coniugi d’irreversibile fallimento dell’unione matrimoniale, possa emanare un provvedimento volto a sollecitare ciascuna parte ad addivenire ad un incontro con un mediatore familiare. Il giudice avrà il compito di indicare la persona a cui è demandato l’incarico di organizzare e condurre gli incontri, predisponendo una relazione che attesti se le parti hanno accolto l’invito loro rivolto e, nel caso abbiamo aderito alla proposta, gli eventuali esiti dell’incontro e l’avvenuta o meno composizione amichevole della controversia (13).

La legge inglese, tuttavia, non fornisce alcuna definizione dell’istituto, né tanto meno indica standards professionali ai quali il mediatore deve attenersi nell’esercizio delle sue funzioni, contrariamente ai codici di condotta che i mediatori inglesi si sono dati autonomamente.

La Law society Code of Practice for Family Mediators – codice deontologico a cui tutti gli avvocati inglesi, che svolgono anche la funzione di mediatore, hanno deciso di aderire – definisce come la mediazione familiare «un procedimento una coppia […] si accorda nella scelta di un terzo neutrale (il mediatore) il quale è imparziale, non ha alcun autorità per prendere decisioni […] ma li aiuta a raggiungere le decisioni che sono in ogni caso il frutto della loro volontà, manifestatasi in sede di negoziazione» (14).

2. Mediazione familiare e giurisdizione

L'esperienza ha mostrato, storicamente, come gli strumenti imperativi della giurisdizione siano inidonei a risolvere i conflitti familiari, rimuovendo le ragioni profonde che li hanno causati: la costante inutilità dei tentativi di riconciliare i coniugi nei giudizi di separazione e di divorzio ha da tempo modificato nella prassi l'oggetto del tentativo di conciliazione, ravvisabile oramai, in maniera preferenziale, nel dare al conflitto coniugale un assetto consensuale per quanto riguarda essenzialmente le modalità dell'affidamento dei figli e i rapporti patrimoniali.

Soltanto i membri della famiglia possono superare la crisi che li divide ed è questo un obiettivo che può essere raggiunto esclusivamente con la loro volontà, in quanto affidare la soluzione del loro conflitto all'autorità di una sentenza è comunque per entrambe le parti una sconfitta.

Da un punto di vista più generale, il rapporto tra mediazione e giurisdizione è stato, per svariate ragioni, un rapporto non semplice (15). In primo luogo, per ragioni di carattere latu sensu culturali, il nostro processo è intrinsecamente contenzioso. Si aggiunga che il codice di procedura civile vigente è entrato in vigore nel 1940, ossia in un contesto politico nel quale era massima l'esaltazione della giurisdizione come espressione dell'auctoritas dello Stato e del processo come luogo nel quale il giudice attua la funzione sovrana dello Stato di garantire la legalità (16).

A ciò si aggiunga che il codice di rito, nel riformulare la precedente normativa, relegò la conciliazione a null'altro che uno degli innumerevoli poteri discrezionali di cui il giudice si serviva, mentre l'arbitrato fu confinato tra i procedimenti speciali e disciplinato in fondo al codice (17). In secondo luogo, per una tradizione di matrice preunitaria, la legge dell'ordinamento giudiziario delinea il giudice come un funzionario-burocrate, in quadrato in un rapporto di pubblico impiego con lo Stato e selezionato esclusivamente sulla base della sua preparazione tecnico-giuridica.

Al giudice, infatti, non è mai stato chiesto di padroneggiare, sia dal punto di vista teorico, sia da punto di vista pratico, le tecniche della conciliazione e della mediazione, se non da quando il Consiglio Superiore della Magistratura, nel quadro della formazione e dell'aggiornamento professionale dei magistrati, ha iniziato a promuovere la conoscenza degli strumenti di ADR.

Pertanto, l'apertura verso tali strumenti di risoluzione delle controversie è stata rimessa alla sensibilità e alla volontà del singolo magistrato. Questo, come spiega Impagnatiello, «contribuisce a spiegare il perché la mediazione familiare ha avuto e tutt'ora ha una diffusione a macchia di leopardo» (18), atteso che, in alcuni contesti, essa rappresenta una realtà consolidata, mentre in altre realtà è spesso misconosciuta se non osteggiata.

Inoltre, come spiega l’Autore, non ultimo, tra gli ostacoli che si frappongono a una piena e uniforme utilizzazione della mediazione familiare, vi è il fatto che a tutt'oggi, nonostante le istanze e le pressioni provenienti da vari settori, il nostro legislatore non ha regolamentato la figura del mediatore (19).

Invero, negli ultimi anni, alcune regioni vi avevano provveduto in modo autonomo, istituendo un pubblico elenco dei mediatori familiari e regolamentandone i profili istituzionali e i criteri di accreditamento professionale.

Senonché, la Corte Costituzionale, con la sentenza 1331/2010, ha stabilito il principio per il quale, a norma dell'art. 117, co. 3, Cost., «la disciplina delle professioni appartiene alla competenza concorrente dello Stato, sicché la potestà legislativa regionale [...] deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale» (20).

L'intervento della Corte Costituzionale, afferma a ragione Impagnatiello, ha «così riportato la mediazione familiare indietro di anni, costringendo i numerosi e talvolta autorevoli organismi presenti in Italia a prendere atto che, al momento, sono possibili solo percorsi di accreditamento autoreferenziali» (21).

Proprio per questo, alcune tra le più importanti associazioni tra mediatori si sono dotate di codici deontologici, finalizzate, tra l’altro, ad individuare chi possa svolgere attività di mediazione, i requisiti di accesso e quali condotte debbano considerarsi violazioni dal punto di vista deontologico.

Sta di fatto che la mediazione familiare si trova rispetto al processo civile in una posizione di notevole ambiguità: la quale è dovuta per una parte all'evanescenza normativa del profilo istituzionale e professionale del mediatore familiare, per l'altra alla mancata percezione da parte del legislatore delle peculiarità che la mediazione familiare possiede rispetto ad altre tecniche di composizione dei conflitti interpersonali, affini solamente in apparenza (22).

Con ogni probabilità, a questo risultato ha contribuito in maniera significativa l'attrazione della mediazione familiare nell'ambito delle ADR, avutasi all'estero prima ancora che in Italia.

In verità, che la mediazione familiare costituisca un metodo di risoluzione delle controversie familiari alternativo rispetto alla giurisdizione è fuor di dubbio. Il punto è che, mentre nei pesi anglosassoni, la sensibilità verso le tecniche di ADR è maturata prescindendo dal piano della deflazione del contenzioso, ma piuttosto valorizzando la qualità intrinseca della soluzione negoziale del conflitto, in Italia si è interessato delle tecniche conciliative principalmente, se non esclusivamente, in considerazione della loro capacità di disincentivare il contenzioso civile e, conseguentemente, di contribuire ad alleggerire i ruoli degli uffici giudiziari (23).

Proprio per questo la mediazione familiare non è riuscita a catturare l'interesse del nostro legislatore, fino al punto da essere sostanzialmente misconosciuta dal d. lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (24). Infatti, in un sistema nel quale l'intervento dell'autorità giudiziaria nella crisi familiare è in ogni caso imprescindibile, assumendo carattere costitutivo necessario, la mediazione familiare può al più contribuire a semplificare il giudizio di separazione o di divorzio, ma non può evitarne l'insorgenza. In questa ottica ragionieristica, l'utilità della mediazione familiare deve essere apparsa obiettivamente piuttosto relativa.

In realtà, pur ragionando sotto il profilo utilitaristico, non può non considerarsi che il contributo che la mediazione familiare è in grado di dare all'amministrazione della giustizia potrebbe essere tutt'altro che trascurabile, per l'ovvia ragione che i tempi di definizione dei giudizi camerali di separazione e divorzio sono infinitamente più brevi di quelli richiesti in sede contenziosa.

Tuttavia, a voler legare le sorti della mediazione familiare alla sola dimensione deflattiva del contenzioso, si finisce con l'incorrere in un grave errore prospettico, perdendo di vista il proprium della mediazione familiare, col rischio concreto di considerare il fenomeno mediativo in ambito familiare soltanto come ulteriore strumento atto a scoraggiare l'accesso alla giustizia (25).

3. La natura giuridica della mediazione

Preliminarmente, sono necessarie alcune precisazioni sia con riferimento all’ambito di applicazione della mediazione familiare, sia in ordine ai caratteri che la definiscono e che le permettono di distinguersi rispetto ad altre tipologie di interventi con finalità conciliative nell’ambito dei procedimenti familiari (26).

Va chiarito, innanzi tutto, che la mediazione, come rileva Logoluso, può, in linea di massima, contribuire a risolvere efficacemente qualsiasi tipo di conflitto o disputa tra i membri di un medesimo nucleo familiare. Si pensi alla molteplicità di situazioni litigiose che possono sorgere nell’ipotesi di successione testamentaria od, anche, legittima. Tale precisazione consente di rivendicare in maniera ferma l’assoluta posizione di autonomia della mediazione dal sistema giudiziario e, in particolare, dalla limitata applicazione nei procedimenti di dissoluzione del vincolo coniugale. Infatti, precisa l’Autore, «la mediazione familiare non è soltanto un metodo per la regolazione della conflittualità coniugale o, ancora meglio, il suo ambito di applicazione non si identifica con quello dei processi di separazione e divorzio» (27).

La mediazione familiare può – rammenta Pupolizio – può risultare idonea a risolvere o, quanto meno, ad attenuare i conflitti che oppongono parenti e affini e che, spesso, si trasformare in lunghe ed estenuanti controversie nelle aule di giustizia, il cui costo sociale e non solo e di gran lunga superiore all’oggetto del contendere (28).

Gli effetti positivi della mediazione familiare, infatti, possono dispiegarsi in relazione all’intero universo dei conflitti familiari (anche intergenerazionali), favorendo sia un risparmio in termini economici per i soggetti coinvolti, sia un’anticipata composizione della controversia, che ha degli indubitabili vantaggi anche nei confronti del sistema giudiziario (29).

Quanto agli obiettivi della mediazione familiare, occorre ricordare che la medesima ha avuto fin da principio un carattere fortemente interdisciplinare, nascendo dall’incontro tra il mondo giudiziario e quello terapeutico. Infatti, come nuova modalità di gestione dei conflitti, la mediazione familiare ha fatto ingresso in modo prepotente in un panorama professionale già molto affermato.

Pertanto, coloro che, a diverso titolo, si erano impegnati nella gestione dei conflitti familiari, provenendo da una diversa esperienza e competenza, hanno dovuto ben presto affermare la specificità del proprio intervento, mettendo in rilievo da un lato la diversità della mediazione familiare dalla consulenza legale e dall’altro indirizzare coloro che avevano bisogno di un supporto psicologico allo specialista, nella generale convinzione che colui che svolge attività di mediazione familiare non può erogare servizi che esulino dallo specifico dell’intervento mediativo.

Il mediatore familiare è tenuto, pertanto, ad informare le parti che le richieste di intervento o supporto d’ordine legale e psicoterapeutico devono essere indirizzate a specialisti dei rispettivi campi (30).

Tra l’altro, «la netta distinzione tra funzioni e compiti – spiega Logoluso – spetta proprio agli stessi mediatori, i quali finiscono per rivestire il ruolo di chi si limita a facilitare l’eventuale intesa, evitando fermamente ogni occasione di scivolare in una mediazione valutativa, ovvero di dare consigli, fare valutazioni, sostenere delle opinioni» (31), con il rischio concreto di spingere o, addirittura, imporre alle parti ad accettare un determinato risultato.

Una collaborazione tra mediatori e legali appare, per altro verso, auspicabile, non solo per tenere distinti i due tipi di intervento, ma altresì per garantire alla mediazione familiare una funzione preventiva rispetto a un eventuale procedimento giudiziario.

Dall’altro lato, la distinzione pratica tra mediazione familiare e terapia familiare, od ogni altro tipo di intervento psicoterapeutico analogo, si rivela più sottile di quella rispetto alla consulenza legale (32).

Infatti, il rischio sempre presente è che l’utente finisca per attribuire un carattere terapeutico all’intervento del mediatore. Tuttavia, occorre chiarire che, benché la mediazione possa avere risultati terapeutici indiretti, non deve essere confusa con l’intervento terapeutico. Infatti, la mediazione familiare si distacca dalla terapia familiare sia sul piano della prassi operativa sua su quello degli obiettivi.

La mediazione, invero, non ha come finalità la ridiscussione delle ragioni del conflitto o della separazione ma mira a ristabilire una condizione minima di dialogo, nel tentativo di riorganizzare su basi nuove relazioni familiari oramai logorate.

Tanto premesso, si può affermare con maggiore precisione che la mediazione si presenta, per sua natura, come un intervento limitato nel tempo e puntuale negli obiettivi. Benché si possa stabilire un numero di incontri o un periodo entro cui procedere all’accordo di mediazione, convinzione comune è che il mediatore deve fissare fin da principio un intervallo temporale preciso per tentare il componimento delle questioni sollevate dalle parti, avvertendo le stesse, fin dal principio, che la natura dell’intervento del mediatore ha scopi precisi e circoscritti e non deve essere confuso con altre tecniche o modelli di gestione del conflitto (33).

4. I riconoscimenti normativi della mediazione familiare

Il primo riconoscimento ufficiale della mediazione familiare si ha a livello europeo nel 1996, quando a Strasburgo viene siglata la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo, che all’art. 13 (rubricato “Mediazione e altri metodi di soluzione dei conflitti”) impegna espressamente le parti contraenti a incoraggiare «il ricorso alla mediazione e a qualunque altro metodo di soluzione dei conflitti atto a concludere un accordo, nei casi in cui le parti lo riterranno opportuno».

Si tratta di un primo timido invito ai paesi aderenti alla Convenzione a favorire pratiche di mediazione familiare nei conflitti coinvolgenti i minori, ma che tuttavia focalizza la finalità della mediazione nella soluzione dei conflitti, contribuendo a collocare a pieno titolo la mediazione familiare tra le ADR (34). La mediazione familiare non entra ancora formalmente nel nostro ordinamento, poiché la Convenzione sarà ratificata soltanto con l. 20 marzo 2003 n. 77.

Sta di fatto che, anche sulla spinta della Convenzione Europea, la l. 28 agosto 1997 n. 285, nel dettare Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, introduce il primo riferimento normativo esplicito di diritto interno alla mediazione (35).

In particolare, l’art. 4, lett. i) della legge prevede espressamente, tra le misure adottabili per realizzare le finalità della legge, «i servizi di mediazione familiare e di consulenza per famiglie e minori al fine del superamento delle difficoltà relazionali».

Questo passaggio normativo, sia pure marginale, ha avuto di sicuro un ruolo importante nel formare quell’orientamento giurisprudenziale che attribuisse al giudice ordinario il potere di avvalersi dei centri di mediazione familiare, anche prima dell’esplicito rinascimento del legislatore avutosi soltanto dieci anni più tardi (36).

La l. 5 aprile 2001 n. 154, in seguito, nell’introdurre Misure contro la violenza nelle relazioni familiari, prevede all’art 342 ter c.c. che il giudice, adito per l’emanazione di un ordine di protezione, possa altresì disporre l’intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare. In questo caso, l’invio in mediazione rientra tra i poteri discrezionali del giudice, che nel disporla non è tenuto ad acquisire il consenso delle parti (37).

Tale soluzione legislativa è apparsa contraddittoria, atteso che il percorso di mediazione familiare ha senso solo se i coniugi lo intraprendono in assoluta libertà e senza coazione.

Si tratta, invero, di una regola che fa eccezione solo apparente ai principi che reggono la mediazione familiare, poiché il legislatore attribuisce ai centri di mediazione familiare un compito che rientra solo indirettamente nelle loro attribuzioni.

Infatti, qui non si tratta di indurre le parti ad addivenire ad un accordo ma piuttosto di indurre il familiare abusante a desistere dal suo atteggiamento, compitò che può essere affidato anche ad altri organismi citati dalla medesima norma.

Questo riferimento alle norme sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari è comunque interessante poiché ci mostra come l’accesso alla mediazione è qui prevista anche per i membri di una famiglia di fatto e, più in generale, a prescindere dall’esistenza di figli minori.

La necessità di tenere ben distinte le dinamiche tipiche delle procedure consensuali con quelle dei procedimenti giurisdizionali è a fondamento di un ulteriore testo europeo, ossia la raccomandazione 616, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 21 gennaio 1998, con la quale viene espresso un sostegno legislativo allo strumento della mediazione, raccomandando ai governi dei Paesi membri di istituire o promuovere la mediazione familiare, oppure di consolidare quella esistente, in vista di una sua utilizzazione quale mezzo appropriato di risoluzione delle controversi familiari (38).

Questo testo, pur non essendo dotato di forza precettiva, ha avuto il merito di fissare alcuni principi essenziali, anche di natura deontologica, che devono guidare il legislatore interno e i giudici (ove la mediazione familiare fosse già in vigore):

a) che la mediazione dovrebbe avere ad oggetto l’insieme dei conflitti che possono sorgere tra i membri di una famiglia;

b) che la mediazione, in linea di principio, non deve essere obbligatoria, ferma restando la libertà degli Stati di regolarla nei modi più idonei, nonché di vigilare per garantire procedure dirette alla soluzione, formazione e qualificazione dei mediatori, oltre che norme di deontologia a cui i mediatori devono attenersi;

c) che gli Stati dovrebbero vigilare affinché la mediazione sia esercitata dal mediatore in modo imparziale e neutrale, che lo stesso non imponga alle parti una soluzione, sia rispettosa della loro vita privata e che i colloqui siano coperti da riserbo e non vengano utilizzati al di fuori del giudizio tranne che con l’accordo delle parti o nei casi consentiti dal diritto interno, che il mediatore informi le parti sulla possibilità di ricorrere a consultori o ad altri strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e che si ispiri al benessere e all’interesse dei figli minori, concentrando l’attenzione sui suoi bisogni, informandosi l’esistenza di violenze pregresse ed esaminando, nel caso, l’opportunità della mediazione, fornendo, ove richiesto, informazioni giuridiche, senza dare tuttavia consigli e invitandoli a rivolgersi per questo a un avvocato o professionista competente;

d) che gli Stati si adoperino per agevolare l’approvazione degli accordi raggiunti ad opera dell’autorità giudiziaria, prevedendo meccanismi di esecuzione secondo il diritto nazionale;

e) che gli Stati riconoscano l’autonomia della mediazione e la possibilità che questa si svolga prima durante o dopo il processo, prevedendo altresì meccanismi di sospensione del processo in attesa del raggiungimento dell’accordo;

f) che gli Stati valutino l’opportunità di estendere i principi sulla mediazione ad altre forme di composizione dei conflitti e l’opportunità di introdurre meccanismi di mediazione per i conflitti riguardanti minori allorquando i genitori vivano in stati differenti;

g) che gli Stati dovrebbero fare il possibile per promuovere la cooperazione tra i servizi di mediazione familiare al fine di agevolare l’impiego della mediazione internazionale e che, colui che la esercita, debba dotarsi di una formazione supplementare (39).

Tali principi sono ribaditi, altresì, da una successiva raccomandazione, adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, la n. 1639 del 2003, la quale incoraggia l’accesso alla mediazione familiare, la definisce e ne indica gli scopi principali.

Infatti, la mediazione è definita come procedimento di costruzione e di gestione della vita tra i membri di una famiglia, procedimento gestito da un terzo indipendente e imparziale chiamato mediatore, il cui compito è quello di accompagnare le parti del procedimento verso una finalità concordata innanzitutto tra loro: l’obiettivo della mediazione è quello di giungere ad una conclusione accettabile per i due soggetti senza discutere i termini di colpa e di responsabilità.

Precisa ancora il testo che scopo principale della mediazione non è quello di alleggerire il carico dei tribunali ma di ristabilire, con l’aiuto di un professionista specializzato, la capacità di comunicare tra le parti (40).

A livello comunitario, infine, il Consiglio di Giustizia e Affari interni dell’UE del 30 novembre 2000 ha sottolineato l’importanza di promuovere la mediazione familiare come metodo di risoluzione delle controversie familiari, in conformità a quanto stabilito nel regolamento n. 1347/2000 (Bruxelles II) (41).

5. Segue: la mediazione familiare e l’affidamento condiviso

La crescente attenzione e la rafforzata tutela degli interessi della prole all’interno del nucleo familiare sono i frutti più recenti dell’evoluzione normativa rappresentati dal riconoscimento ottenuto dalla mediazione familiare e dall’affidamento condiviso dei figli.

Entrambi hanno come obiettivo principale quello di garantire la continuità della funzione genitoriale in seguito alla crisi coniugale, nella convinzione che occorra assicurare ai figli un rapporto stabile con entrambi i genitori in seguito alla fine della loro convivenza (42).

La legge 8 febbraio 2006 n. 54, recante disposizioni in materia di separazione dei coniugi ed affidamento condiviso dei figli, ha rappresentato, da un lato, un punto di approdo di un movimento sostenuto dai padri separati nella direzione di affermare proprio la continuità dell’esercizio della funzione genitoriale anche in seguito alla dissociazione dei coniugi, dall’altro, l’ufficiale ingresso della mediazione familiare all’interno dei procedimenti di separazione e divorzio dei coniugi (43).

Infatti, con l’introduzione dell’art. 155 sexies c.c. ex lege 8 febbraio 2006 n. 54, recante disposizioni in materia di separazione dei coniugi ed affidamento condiviso dei figli, è stato previsto lo strumento della mediazione familiare quale tecnica utilizzabile dal giudice – ove lo ritenga opportuna – nel corso del procedimento per il componimento pattizio dei conflitti tramite esperti.

Tale istituto è sembrato porsi in sintonia con lo spirito conciliativo che permea l’intero procedimento, di separazione o di divorzio, teso, ove possibile, al raggiungimento di un accordo tra le parti.

Nell’istituto della conciliazione, l’accordo è ricercato ab initio dal Presidente del Tribunale, al quale viene demandato il tentativo di far riconciliare le parti prima di nominare il giudice istruttore. Si affida, cioè, al Presidente l’obiettivo di evitare, per quanto possibile, la separazione o lo scioglimento del matrimonio, dichiarando, qualora i coniugi si riconcilino, l’estinzione del procedimento per rinunzia all’azione.

Analogamente, seppure con logiche ed obiettivi distinti, è previsto con il tentativo di mediazione il perseguimento dell’obiettivo del raggiungimento di una limitata intesa tra i coniugi sui contenuti del regime dei rapporti residuti che li legano (44). L’art. 155 sexies, co. 2, c.c. stabilisce infatti che il giudice, qualora ne ravvisi l’opportunità, sentite le parti ed ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c. per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento all’interesse morale e materiale dei figli.

Il Giudice, pertanto, facendo uso del proprio potere discrezionale, può alla luce della menzionata disposizione rimettere le parti dinanzi ad un collegio di esperti di modo che ivi possano nascere accordi tra i coniugi atti a regolamentare il nuovo assetto familiare, successivamente alla crisi coniugale.

Al giudice è riconosciuto, in tal modo, un potere dispositivo del tentativo di mediazione , in base ad una propria valutazione, sommaria e non superficiale della controversia al suo esame, circa l’opportunità e la prognosi di successo di siffatto tentativo. Il giudice, pertanto, sentite le parti ed accolto il loro consenso, ove consideri opportuna la mediazione, ne dà atto nel verbale di udienza e fissa una nuova data per la comparizione delle parti innanzi a sé (45).

Il requisito essenziale che rende possibile l’intervento dei mediatori è quello del consenso, libero e meditato, sempre revocabile, dei coniugi di intraprendere il percorso di mediazione. Ove con la mediazione, le parti raggiungano un accordo, il giudice provvede alla sua omologazione, nei modi e nei limiti previsti dalla legge. Nel caso in cui non sia raggiunto alcun accordo, il giudice provvede ai sensi dell’art. 155 c.c., mentre ove l’accordo sia in itinere, rilevata la necessità di ulteriore tempo, sentite le parti ed acquisito nuovamente il loro consenso, il giudice dispone un nuovo rinvio (46).

 


Note:

(1) Cfr. F. LOGOLUSO, I procedimenti di separazione e divorzio, Trani, 2013, p. 142.

(2) La mediazione può definirsi, con le parole di Michael Leathes, come il consenso facilitato da una persona neutrale di fiducia.

(3) Sulla mediazione familiare, si veda J. HAYNES-I. BUZZI, Introduzione alla mediazione familiare. Principi fondamentali e sua applicazione, Milano, 1996; L. LAURENT-BOYER, La mediazione familiare, Napoli, 2000; R. ARDONE-M. LUCARDI, La mediazione familiare. Sviluppi, prospettive, applicazioni, Roma, 2005; E. ALLEGRI-P. DE FILIPPI, Mediazione Familiare, Roma, 2004; I. PUPOLIZIO, La mediazione familiare in Italia, Torino, 2007.

(4) F. LOGOLUSO, op. cit., p. 143.

(5) Cfr. Ivi, pp. 143-144

(6) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, in Famiglia e Diritto, 5/2011, p. 528.

(7) La Ge.A., tuttora una delle più importanti associazioni tra mediatori familiari, nasce nel 1987 a Milano.

(8) Lo stesso giudice stabilisce il compenso da versare al mediatore ed i termini entro cui tale versamento deve essere fatto, oltre che la durata dell’incarico.

(9) F. R. FANTETTI, La Mediazione familiare come facoltà del giudice, in Famiglia e Diritto, 1/2011, pp. 36-37.

(10) Cfr. Ibidem.

(11) A. L. BITETTO, La mediazione familiare in Inghilterra e Galles, in Famiglia e Diritto, 1/2006, p. 95.

(12) Gli accordi negoziali posti in essere dai coniugi vanno comunque sottoposte al vaglio del giudice, che dovrà valutarne la congruità,soprattutto in relazione all’interesse primario della tutela dei minori.

(13) A. L. BITETTO, La mediazione familiare in Inghilterra e Galles, cit., p. 95.

(14) Cfr. Ivi, p. 96

(15) Si veda, sul punto, G. DOSI, Sistema giudiziario, conflittualità familiare e mediazione in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 1994, p. 764.

(16) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., p. 526.

(17) Il codice previgente, al contrario, frutto del liberalismo ottocentesco, disciplinava la conciliazione e l'arbitrato agli artt. 1 e ss., facendo intendere che il processo davanti al giudice costituiva l'extrema ratio e che il sistema doveva preferire soluzioni concordate tra le parti, da sole o per il tramite di persone di fiducia. Si veda, in merito, F. CIPRIANI, Il processo civile in Italia dal codice napoleonico al 1942, in Rivista di diritto civile, 1996, I, § 4.

(18) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., p. 527.

(19) Cfr. Ibidem.

(20) Corte Cost., 15 aprile 2010, n. 131.

(21) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., p. 527.

(22) Ibidem.

(23) Ivi, pp. 527-528.

(24) Com'è noto, l'art. 60 della l. 18 giugno 2009 n. 59, ha delegato il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e conciliazione in ambito civile e commerciale. In attuazione della delega, il citato d. lgs. 28/2010 ha introdotto e regolamentato la mediazione finalizzata alla conciliazione.

(25) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., p. 528.

(26) F. LOGOLUSO, op. cit., p. 144.

(27) Ibidem.

(28) Sul punto, si vedano le interessanti annotazioni di I. PUPOLIZIO, La mediazione familiare nei procedimenti di separazione e divorzio, in Separazione, divorzio, invalidità del matrimonio, Padova, 2009, pp. 139 ss.

(29) F. LOGOLUSO, op. cit., p. 144.

(30) Cfr. Ivi, pp. 146-147.

(31) Ibidem.

(32) Ivi, p. 149.

(33) Ivi, pp. 147-148

(34) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., pp. 528-529.

(35) Ibidem.

(36) All’art 4 della l. 285/1997 fa riferimento il Tribunale di Bari nell’ordinanza 21 novembre 2000 che, in un giudizio di modifica dei provvedimenti di separazione, ha così potuto dare spazio a un percorso di mediazione tra due coniugi separati che si contendevano il diritto di visita del minore.

(37) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., p. 529.

(38) F. LOGOLUSO, op. cit., p.149.

(39) G. IMPAGNATIELLO, La mediazione familiare nel tempo della “mediazione finalizzata alla conciliazione” civile e commerciale, cit., pp. 527-528.

(40) F. TOMMASEO, Mediazione familiare e processo civile, in Famiglia e Diritto, 8-9/2012, p. 832 nt. 3.

(41) F. UCCELLA, Nuove sfide sociali ed umane e diritto di famiglia nell’Unione Europea dal 2004: riflessioni preliminari, in Giurisprudenza Italiana, 2004, 3, 688-693.

(42) F. LOGOLUSO, op. cit., p. 150.

(43) Ibidem.

(44) Pur essendo diventato, già da molti anni, il tentativo di conciliazione, soltanto un passaggio procedurale, costituisce prassi consolidata che, all’udienza fissata, il Presidente indaghi direttamente con le parti circa la possibilità di un’intesa sulle condizioni della separazione. Ed anche al giudice istruttore è di fatto demandato un compito conciliativo, laddove, nel corso del procedimento, egli deve perseguire costantemente l’obiettivo di una possibile intesa tra le parti. Ed, ancora, analoghi tentativi sono esperibili dal Presidente del Tribunale e dal Giudice istruttore nel processo di divorzio in merito alla definizione di accordi economici o sulle condizioni inerenti la prole.

(45) F. R. FANTETTI, La Mediazione familiare come facoltà del giudice, cit., in Famiglia e Diritto, 1/2011, p. 39.

(46) Ivi, pp. 39-40

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