STUDIO LEGALE
SCAFETTA

L'arbitrato irrituale e la sua impugnazione

arbitrato
di Michela Scafetta

Indice

1. ARBITRATO RITUALE E ARBITRATO IRRITUALE

1.1 Le origini
1.2 L’Arbitrato rituale e l’Arbitrato libero

2. L’ARBITRATO IRRITUALE

2.1 Il compromesso
2.2 L’ arbitro
2.3 L’istruttoria
2.4 Il lodo
2.5 Arbitrati particolari

3. IMPUGNATIVA DEL LODO IRRITUALE

3.1 Lodo arbitrale e impugnazione
3.2 Il procedimento di impugnativa del lodo
3.3 Impugnazione del lodo irrituale
3.4 L'impugnazione per errore nella determinazione degli arbitri irrituali
3.5 La riforma dell’arbitrato irrituale

BIBLIOGRAFIA

1. ARBITRATO RITUALE E ARBITRATO IRRITUALE

1.1 Le origini

L’istituto dell’arbitrato, ossia dell’affidamento ad un terzo della definizione della controversia, ha origini mitiche.

Si celebrano sul monte Olimpo le nozze di Teti e Peleo (genitori di Achille) e Giove, per evitare questioni, non invita alla festa la dea  Discordia, che in passato aveva combinato un sacco di guai.

L’esclusa, offesa, vuole vendicarsi e getta sulla tavola imbandita una mela d’oro recante la scritta “alla più bella”.

È un colpo di genio: subito Giunone, Venere e Minerva si accapigliano per impossessarsi del dono piovuto dal cielo, ma nessuna riesce a prevalere sulle altre due, perciò decidono di affidare la decisione ad un estraneo; vedono un pastore di nome Paride, e lo nominano “arbitro” della questione.

Qui la storia si fa sporca perché ognuna delle tre dee, di nascosto dalle altre, offre a Paride un regalo per essere prescelta e Paride accetta il regalo di Venere che consiste nell’amore della bella Elena: è l’origine della guerra di Troia.

Gli ingredienti ci sono tutti: la vertenza, il compromesso arbitrale, il lodo, la corruzione dell’arbitro, ma con un’analisi più approfondita si colgono altri aspetti.

La difficoltà della decisione – che non dipende da una semplice operazione aritmetica - l’estraneità dell’arbitro che deve essere indifferente (oggi si scrive di terziarietà o terzietà), l’equiparazione dei contendenti e la loro anticipata sottomissione alla decisione che è stata demandata ad un “ vivente” ossia ad un essere di caratura ben più modesta, l’esposizione dei “titoli” da parte delle dee.

Sulla costa africana del Mediterraneo, nel golfo della Sirti, vicino a Cartagine, poco tempo prima della fondazione di Roma, sono nate due città e gli abitanti devono stabilire il confine tra i rispettivi territori, possibilmente senza ricorrere all’uso delle armi.

Ogni città sceglie un giovane veloce e fedele; i due giovani allo spuntare del sole, iniziano a corrersi incontro, seguiti da numerosi cavalieri: dove di incontrano viene fissato il confine.

La leggenda (o storia vera) dice che i due giovani vengono immolati in quel punto e, a perenne memoria, viene eretta una tomba che ancora molti secoli dopo viene mostrata ai passanti: l’ara dei Sileni.

Nell’anno 117 a.C., nei monti dell’entroterra genovese, due paesi vicini, abitati dai Genuati e Viturii, si contendono una zona di terreno che entrambi vogliono sfruttare come pascolo; in casi del genere, di cui è piena la storia, si ricorre alle armi, questa volta è diverso perché Genuati e Viturii compromettono la vertenza e vengono nominati arbitri della contesa i fratelli Minuci, con mandato di decidere i limiti e modalità di sfruttamento dei pascoli in questione.

Il lodo arbitrale viene inciso su una lastra di bronzo che si conserva in modo miracolosamente perfetto e viene ritrovata nell’anno 1506 a Serra Riccò, presso Genova.

Gli arbitri sono scelti per la loro probità e capacità, per la conoscenza dei luoghi, per l’indifferenza verso le parti; il lodo viene inciso nel bronzo perché duri in eterno.

L’arbitrato è già definibile come un contratto triangolare sui generis, nel quale due parti (che possono essere anche più di due) compromettono ad un terzo (che può essere un collegio arbitrale la definizione di una loro differenza.

L’oggetto del contendere può essere vario, dal concorso di bellezza al confine tra due popoli.

L’età romana, dopo un periodo di apparente incertezza, vede affrontare l’istituto dell’arbitrato in modo quasi sistematico.

Già nelle Dodici Tavole viene distinto l’arbitro dal giudice; sembra che in quella circostanza sia stata anche stabilita la competenza arbitrale in due precise occasioni, legate alla famiglia e ai confini della proprietà; ciò sarebbe confermato dall’etimologia del nome arbitro; altro elemento di prova sarebbe fornito dalla citazione classica, secondo cui se ne discute, tre arbitri regolino i confini.

La determinazione del confine così come quella del prezzo della merce, attengono ad un momento in cui le parti, avendo già convenuto ovvero essendo già pacifica la situazione, designano l’arbitro perché fissi la quantità.

La sistematicità romana fa esaminare, ovviamente per escluderne la validità, le ipotesi in cui il compromesso fissi già a priori il contenuto della decisione ovvero che faccia obbligo all’arbitro di decidere in modo da compiacere il terzo; qui la verbosità di alcuni giuristi, confermata dalla loro vastissima produzione giuridica, apre la porta al deprecato bizantinismo.

Altro positivo intervento dei giuristi consiste nell’esaminare l’ipotesi in cui una parte rifiuti di dare all’arbitro la necessaria collaborazione per la definizione del giudizio, ovvero non osservi la sentenza arbitrale.

In questi casi la dottrina romana inventa una pena che costituisce, all’epoca, l’unico rimedio all’inosservanza, in quanto la sentenza arbitrale non costituisce titolo esecutivo a favore della parte che ne desideri l’esecuzione.

Il lodo arbitrale può essere impugnato solamente nel caso di dolo da parte dell’arbitro o di una delle parti. Anche l’arbitro, del quale si prevede il giuramento, in casi particolari può essere ricusato dalle parti.

Questa differenza tra la sentenza del giudice e quella dell’arbitro, così certamente espressa dai romani, è certamente alla base dell’attuale sistemazione dell’istituto  “ a latere” del processo civile e comunque all’interno di un sistema al quale non appartiene.

Vero è che il Pretore può colpire l’arbitro negligente con una multa, mentre non si può immaginare il contrario; tutto quadra, nel creare una precisa gerarchia nella quale il giudice è posto al vertice e l’arbitro un gradino più in basso.

Nel medioevo, l’arbitrato risolve la maggior parte delle vertenze territoriali e dominicali, anche per l’effetto della caduta dell’impero e della scomparsa delle istituzioni giudiziarie; la mancanza di una struttura sopranazionale (dove per nazione si intende comune, signoria, repubblica e principato) fa mancare i presupposti per l’accettazione di un giudice che dovrebbe basare le decisioni su una legge comune alle parti, che non esiste.

Esistono, però, principi fondamentali conosciuti, accettati e rispettati da tutti.

Nasce la figura dell’arbitratore, che dovrebbe essere distinta da quella dell’arbitro, ma spesso le due vesti si confondono.

Il dibattito dottrinario sull’argomento non ha sortito ancora alcuna conclusione condivisibile; qualche significato però deve essere dato alla soluzione formulata alla fine di questo periodo: “Nam arbiter est qui recepit officium iudicis,et promittit se litem sua sententia terminare. Sed arbitrator est qui vult videre an inter eos componete possit nec procedat more iudicis, sicut arbiter facit”.

Per questi motivi, ed altri che sarebbe superfluo elencare, nasce l’arbitrato obbligatorio.

Questo è imposto quasi sempre nel caso di controversie tra parenti ed affini, ma anche quando i litiganti siano persone di modeste possibilità economiche, vedove ed orfani ovvero mercanti ed artigiani relativamente alle merci o ai loro manufatti.

Questo lodo è del 13 Giugno 1219:” In nome di Dio amen, io Guglielmo di Negro, arbitratore lodatore ovvero amichevole compositore eletto e costituito da…sopra tutte le questioni ragioni di diritto e consuetudini…pronuncio e dico per accordo composizione amichevole che…”.

In quasi tutti gli Statuti Comunali medioevali compaiono norme o riferimenti all’istituzione dell’arbitrato, espressa in varie forme, e con intenti e limitazioni diversi.
Così, dall’uno e dall’altro, nel corso dei primi secoli del secondo millennio gli statuti si trasmettono principi e concetti, capitoli e forme.

Compare l’arbitrato, come strumento di soluzione di vertenze private, negli Statuti Comunali di quasi tutte le città, come Genova, Milano, Brescia, Alessandria, Ferrara, ma anche Pesaro e Urbino.

È vero che in essi compaiono norme e riferimenti all’istituto dell’arbitrato espresse in forme anche molto diverse e con diversi intenti e limitazioni, ma è anche vero che tutti condividono principi fondamentali e concetti indiscutibili.

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1.2 L’Arbitrato rituale e l’Arbitrato libero

Dall’arbitrato medioevale al codice civile attuale il passo è lungo, soprattutto per la diversa ottica del legislatore nei due momenti storici.

L’arbitrato veniva considerato, dunque, come lo strumento che consentiva alle parti di continuare a convivere nel medesimo paese senza dover trascendere in faide orrende ed odii secolari.

Dalla nascita del Regno si sviluppa la cultura del codice delle leggi, che prevede ( vorrebbe prevedere) tutti i casi in cui può nascere una vertenza e stabilisce a priori quale ne sia la sorte.

È proprio dalla nascita del codice che sorge, impellente, l’istituto giudiziario e la riserva di competenza esclusiva di questo  nel dirimere qualsiasi vertenza.

È inevitabile il contrasto fra l’arbitrato, che sottrae al giudice la questione, e quest’ultimo, che vuole – deve essere il titolare della questione medesima.

In realtà la vertenza è tra il senso comune e il dettato della legge; con il primo l’arbitro decide, mentre il giudice applica il secondo.

L’arbitro crea di volta in volta una norma con la cui applicazione emette il verdetto; mentre il giudice ha già una norma, emanata da altri, e che deve semplicemente applicare.

Il salto è troppo grande e si deve ricorrere alla creazione di gradini intermedi.

Il primo gradino consiste nella tolleranza dell’arbitrato libero in un limitato ambito di oggetti della vertenza, escludendone altri.

Il secondo gradino, creato di sana pianta, prende il nome di arbitrato rituale, ossia di arbitrato assoggettato ad un rito stabilito dalla legge.

Si discetta sul punto se la transazione sia intesa ad evitare una lite che può sorgere da una controversia già esistente, su concezioni privatistiche, su distinzione delle controversie giuridiche ed economiche, sulla natura contrattuale degli arbitrati, e su quella dell’accordo che elimina la controversia giuridica che, secondo alcuni, è costituito dalla transazione.

Si è negata l’ammissibilità dell’arbitrato libero  - definito spregevolmente improprio – ovvero in esso si è veduto lo strumento ideale per affidarsi al giudizio di esperti, eliminando le lentezze ed il costo del procedimento giudiziario.

Chi ha cercato vincoli e svincoli nei procedimenti e nel giudizio arbitrale, chi ha scritto dell’arbitrato libero come di una frode alla legge, chi ha sostenuto l’unità fondamentale dell’arbitrato rituale con quello irrituale.

Ancora, chi vuole inquadrare l’istituto nei negozi di accertamento, chi sostiene trattasi di una novazione del negozio giuridico, e chi nega tale spiegazione, con motivazioni diverse. Chi sostiene trattasi di un negozio di accertamento a formazione progressiva o per relationem, ovvero cerca l’aliquid datum e l’aliquid retentum come soluzione interpretativa al problema interpretativo dell’arbitrato libero ed il significato della non impugnabilità del lodo, chi afferma essere l’arbitrato libero, un sostitutivo di quello rituale.

Molti autori (Schizzerotto, Minoli, Vasetti, Cogliolo, Secchione, Brunetti ecc)  continuano ad usare, nel vigore del codice di rito, l’espressione di “arbitrato irrituale”, per altro adottato normalmente in giurisprudenza; altri hanno adottato la corretta formula di “arbitrato libero”( tra gli altri: D’ Onofrio, Secchione, Mazza, Ascarelli), mentre alcuni usano la definizione di “arbitrato improprio” (Carnelutti, Schizzerotto, Parenzo…).

Altro dibattito, in buona sostanza basilare, al fine di inquadrare l’istituto, si è sviluppato in merito alla qualificazione di “lite”, ”lite incerta” e “res dubia”, soprattutto al fine di stabilire la natura del rapporto fra il contratto ed il compromesso.
Secondo il citato Schizzerotto, il termine arbitro così come il conseguente arbitrato, dovrebbe essere riservato unicamente a quel procedimento speciale previsto dal codice di procedura civile, che è secondo quel autore, il vero ed unico istituto che si possa così definire. L’opinione così audace, deve essere disattesa, così come ogni sfacciato tentativo di appropriazione di vocaboli a di cancellazione di principi e di concetti che tanta parte hanno avuto nella storia dell’umanità.

Nell’arbitrato cosiddetto rituale, la qualità di arbitro può essere assunta unicamente da persone fisiche, che siano in possesso di ben precisi requisiti: il richiamo è fatto allo scopo di porre nella dovuta evidenza la differenza sostanziale tra quello e l’arbitrato libero.

Gli arbitri liberi possono essere nominati dalle parti senza alcuna limitazione, in considerazione del fatto che non svolgono pubbliche funzioni.

Il complesso “compromesso – arbitrato irrituale” costituisce un contratto, a formazione successiva, le cui fasi sono rette da una solidale espressione di volontà; l’arbitro libero agisce per mandato delle parti, mandato che può assumere la veste della procura. Ove siano compromessi, ad esempio diritti reali su beni immobili, ci si chiede come possa un notaio accettare l’espressione di volontà di una persona palesemente  o notoriamente incapace di intendere e di volere, o come possa il medesimo notaio rogare una procura conferita a un minore o ad un ubriaco.

Se l’arbitro libero, pur non esercitando funzione giurisdizionale, svolge un compito di diritto sostanziale, è accettabile la decisione secondo cui non possono trovare applicazione le norme relative alla incompatibilità dei giudici.

È necessario sgombrare il terreno da un equivoco che aleggia sull’argomento ma che non si vuole affrontare e chiarire.

Se due parti, divise da una vertenza, decidono di comprometterla e ciascuna nomina il proprio arbitro, non sarebbe più semplice che le stesse parti, direttamente e senza intermediari, si incontrassero per definire le differenze? È ben certo che dal momento che hanno aderito al compromesso, i loro rapporti personali  non sono così deteriorati da impedire l’attuarsi di questa soluzione in pratica si tratterebbe di instaurare e condurre una nuova contrattazione, a cavallo di quella originaria, avente con questa stretti legami di interdipendenza. Inoltre, nessuno meglio delle parti conosce l’oggetto del contratto e la natura della contesa, elementi che dovrebbero concorrere nella formazione della decisione arbitrale.

E allora perché gli arbitri?

La spiegazione dell’equivoco si trova proprio in questo punto, nel fatto che la parte è troppo parte, è troppo immedesimata nel ruolo, è troppo rigida nel proprio atteggiamento, è troppo legata al proprio interesse.

La parte perciò esprime la sua ragionevolezza nella stipulazione del compromesso, ma non è in grado di farlo nella stesura del lodo, ossia nella definizione della controversia.

Ed ecco l’arbitro libero, che deve essere caratterizzato proprio dall’opposto di quegli eccessi e difetti, o quanto meno deve essere capace di ridimensionarli ragionevolmente.

L’arbitrato irrituale si ispira precipuamente all’equità, e la parte è partigiana, non è – e non può essere –equa.

Di tanto è riprova il fatto che, ove una parte scelga un arbitro troppo rigido, troppo legato al ruolo di portatore di interessi, non si avrà arbitrato se non con l’intervento di un terzo arbitro e la decisione sarà presa a maggioranza.

Nel compromettere la vertenza, le parti compiono un atto di buona fede, di onestà.

Riconoscono a se stessi la l’incapacità di dirimere la questione ed ammettono che, se potessero avere quella capacità , non ci sarebbe questione.

Questa considerazione, porta ad esaminare, qui solo sommariamente, il problema del requisito di capacità ed imparzialità dell’arbitro nominato dalla parte.

Premesso che l’espressione della volontà delle parti, prima nella stipula del contratto e  poi nell’adesione al compromesso, deve sortire da una scelta consapevole, nel senso che la parte non deve essere incapace, ebbra, soggetta a sostanze stupefacenti ovvero a minacce, è prima di tutto ovvio che l’arbitro deve possedere analoghi requisiti.

L’incapacità originaria o quella dichiarata per sentenza agiscono su tutto lo spettro delle decisioni che involgono aspetti patrimoniali e sociali attribuiti a terze persone (tutori, curatori…) in virtù di un mandato fiduciario conferito “intuitu personae”.

Questa esclusione opera a maggior ragione ove si voglia considerare il significato economico e morale di un mandato arbitrale. Non è casuale il fatto che, in vari tempi ed in vari paesi, l’arbitro doveva essere scelto fra persone espressamente qualificate, per nomina o per elezione a garanzia della loro particolare moralità e capacità.

L’indagine sulla natura rituale o irrituale dell’arbitrato, diretta ad accertare la reale volontà delle parti si concreta in una quaestio voluntatis in quanto è la volontà dei compromettenti che conta.

Tale volontà, però, si ricostruisce, sulla base delle regole proprie dell’interpretazione dei contratti.

Le espressioni infatti possono essere generiche o improprie; non ha rilevanza il fatto che le parti si siano impegnate ad eseguire la decisione arbitrale, perché ciò è indispensabile per aversi arbitrato, ovvero che gli arbitri siano stati nominati “amichevoli compositori”.

In questo caso le parti possono avere inteso attribuire all’arbitro irrituale poteri di composizione negoziale della lite, o all’arbitro rituale di giudicare secondo equità, potere che può essere conferito con qualsiasi espressione.

Ciò che conta è la volontà delle parti desumibile dalla clausola compromissoria, contrattuale o dal compromesso nel suo contenuto obiettivo e sostanziale e nelle finalità eseguite.

La dispensa dal deposito del lodo o da ogni altra formalità, in alcune pronunce, non sono elementi decisivi per la qualificazione dell’arbitrato, mentre secondo altri giudici lo sono.

Incertezza e contraddittorietà giurisprudenziale compaiono in altre occasioni.

Si tratta di mera circostanza il fatto che le parti abbiano considerato gli arbitri come “amichevoli compositori” e abbiano stabilito che il lodo sia “inappellabile” e sia reso senza “formalità”, atteso secondo la Suprema Corte  che tali espressioni, non sono determinanti, ma se si aggiunge che la decisione viene comunicata alle parti, il relativo arbitrato – secondo un giudizio di merito -  è libero.

Insiste la Corte che non spiegano rilevanza decisiva le espressioni letterali usate dalle parti, né la previsione di una specifica singola controversia, o di qualsiasi altra controversia attinente ad un determinato tipo di rapporto, né le modalità ed i tempi della formulazione dei quesiti e delle attività difensive.

Le indagini, secondo altra pronuncia, si concretano in una quaestio facti e in una quaestio voluntatis.

È accaduto frequentemente di dover dubitare se la decisione degli arbitri liberi potesse essere utilmente impugnata per vizi di varia natura, non attinenti specificamente alla natura negoziale di quella.

La necessità di applicare e interpretare norme giuridiche per pervenire alla determinazione conclusiva non contrasta col carattere irrituale dell’arbitrato.

In verità, sic stantibus rebus,si tratta di accertare se la decisione arbitrale viene posta su un piano giurisdizionale, per avere le parti conferito agli arbitri una funzione sostitutiva dell’operato del giudice, o su un piano contrattuale, in quanto le parti attribuiscono agli arbitri un mandato diretto a definire la controversia in via negoziale.

È facile capire che nel primo caso si ha arbitrato rituale e nel secondo caso si ha arbitrato irrituale.

Il fatto che gli arbitri debbano pervenire alla decisione con applicazione o interpretazione di norme giuridiche  non è di per sé rilevante ai fini dell’esclusione del carattere irrituale del arbitrato, atteso che questo ricorre ogni qual volta le parti demandino agli arbitri stessi una soluzione contrattuale della contesa, riconducibile alla volontà dei mandanti e come tale per essi vincolante, non soltanto mediante un negozio transattivo ma anche mediante un negozio di accertamento, rivolto alla rimozione di uno stato di incertezza, tramite operazioni logico giuridiche.

La nomina degli arbitri può avere rilevanza nel senso che si può inquadrare nella figura dell’arbitrato rituale il collegio di probiviri in una società, ovvero il contrario nel fatto che il collegio sia composto da un numero di arbitri pari, che essi siano stati considerati come rappresentanti dell’una e dell’altra parte, autorizzati a manifestare una volontà nell’ambito contrattuale come mandatari delle parti.

Ove in una clausola compromissoria sia usata l’espressione “arbitro” in mancanza di ogni altro riferimento, deve intendersi che le parti abbiano voluto sottrarre (ancora il sospetto di una deminutio capitis) la controversia alla competenza del giudice ordinario per demandarla ad un arbitro che esercita un vero e proprio potere giurisdizionale ed effettui, quindi, un “vero e proprio arbitrato ossia un arbitrato rituale”.

Ancora nel 1967 l’uso, nel compromesso, di espressioni proprie del procedimento giurisdizionale, quali “decidere”, “decisioni inappellabili”, “effetti del giudicato” non erano sufficienti di per se solo, a far qualificare rituale, l’arbitrato; pochi anni dopo, il riferimento ad espressioni tipiche del processo civile, quali “contestazioni”, “questioni”, ovvero “giudicherà” o ancora “controversie” e “giudizio” costituisce elemento di indiscutibile rilievo nel senso dell’arbitrato rituale.

Appropriazione della terminologia a favore del vocabolario esclusivo giurisdizionale è compiuta; il cittadino non sa nulla, il legislatore non si pronuncia, ma ciò è irrilevante.

Nulla di nuovo si riscontra, nel merito, con l’entrata in vigore della novella del 1994, che avrebbe potuto essere la soluzione del problema, ed invece è stata l’ennesima occasione perduta.

Così, la clausola che demanda agli arbitri la decisione di tutte le controversie che possono sorgere in dipendenza di un determinato contratto è rilevante, deponendo tale espressione per il mandato rituale.

Nulla appare mutato nelle decisioni più recenti.

In tema di arbitrato irrituale, non possono essere ritenuti elementi decisivi alla configurabilità dell’istituto (onde escludere la sussistenza della diversa figura dell’arbitrato rituale) né il conferimento ad arbitri della potestà di decidere secondo equità, ovvero in veste di amichevoli compositori (non essendo tale specificazione del criterio di definizione della controversia incompatibile con l’arbitrato rituale, nel quale ben gli arbitri possono essere investiti del potere equitativo) né la preventiva attribuzione alla pronuncia arbitrale del carattere dell’inappellabilità (carattere ipotizzabile anche con riferimento al lodo da arbitrato rituale, ex art. 829 c.p.c., con il solo effetto della esclusione della deducibilità dell’error in judicando) né la previsione di esonero degli arbitri da formalità di procedura (previsione non incompatibile con l’istituto dell’arbitrato rituale, giusta disposto dell’art. 816 c.p.c.), dovendosi per converso valorizzare, ai fini di una corretta lettura della volontà delle parti compromesse da arbitri, espressioni terminologiche (quali quelle ricorrenti nel caso di specie) congruenti con l’attività del giudicare e con il risultato di un giudizio in ordine ad una controversia (specie se concernente questioni strettamente giuridiche e non tecniche), incompatibili, cioè, con la previsione di un arbitrato irrituale.

Resta il  caso che si verifichi l’incertezza interpretativa della volontà delle parti: a questo punto è consentito ricorrere al criterio ermeneutico del favor della competenza del giudice ordinario e di riconoscere la natura irrituale dell’arbitrato.

Questa composizione si è oramai consolidata in giurisprudenza al punto che non si incontra più alcuna decisione di diritto contraria.

Al fine di accertare se una determinata clausola compromissoria prefiguri un arbitrato rituale o un arbitrato irrituale deve aversi riguardo all’effettiva volontà delle parti, desumibile dall’intero contesto della pattuizione e non dall’una o dall’altra delle espressioni usate singolarmente, ricorrendo la prima ipotesi (arbitrato rituale) quando le parti abbiano conferito ad uno o a più terzi l’incarico di risolvere determinate o determinabili controversie che siano insorte o possono insorgere tra loro, mentre ricorre la seconda (arbitrato irrituale) allorché ai terzi o al terzo sia affidato il compito di definire in via negoziale le contestazioni insorte tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una conciliazione amichevole, conciliativa o transattiva o con un negozio di accertamento.

Ove all’esito dell’indagine permanga incertezza sulla qualificazione dell’arbitrato, essa deve essere risolta nel senso che le parti abbiano inteso prevedere un arbitrato irrituale.

Con sentenza n. 12714 del 30 agosto 2002, la Cassazione è tornata a pronunciarsi, dopo alcune recenti decisioni in argomento, sulle conseguenze della riforma del 1994 – o meglio sulla lettura in senso negozialistico datane dalla giurisprudenza a partire dalla ormai nota sent. N. 527 del 2000 delle sezioni unite – in ordine alla distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato libero.

Confermando l’orientamento espresso nelle decisioni sopra ricordate, la suprema Corte da un lato evidenzia l’esistenza della distinzione, dall’altro afferma la necessità di sottoporre a revisione il criterio su cui essa , sino a ieri, si fondava.

Invero, una volta ritenuta la natura privatistico -  negoziale anche dell’arbitrato rituale, e dunque la riconducibilità anche di quest’ultimo “all’autonomia negoziale ed alla legittimazione delle parti a derogare alla giurisdizione per ottenere una decisione privata della lite, fondata unicamente sul loro consenso e dunque in nessun modo assimilabile ad una pronuncia giurisdizionale, è evidente che il criterio di distinzione tra le due species arbitrali non può più imperniarsi, come in passato sulla diversa funzione affidata dalle parti agli arbitri, ma deve essere individuato altrimenti: mentre per l’arbitrato rituale le parti intendono ottenere un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale di cui agli articoli 816 c.p.c. e segg., in quello irrituale esse avrebbero di mira una soluzione delle controversie tra loro insorte o insorgende affidata “soltanto” allo strumento negoziale , mediante cioè una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibili alle stesse parti, le quali si impegnano ad accettare la decisione come espressione della loro volontà.

È fuori dubbio che tale ricostruzione sia tale da provocare un certo disorientamento. Invero, già la perentorietà, con cui la Corte liquida la questione concernente la sopravvivenza dell’arbitrato irrituale dopo la legge del 1994, limitandosi ad osservare come quest’ultimo non sia stato direttamente investito dalla riforma, non può non lasciare sorpresi. Se si considera la scomparsa dell’arbitrato libero, e con essa il superamento della tradizionale distinzione tra quest’ultimo e l’arbitrato codicistico, viene, dai sostenitori della teoria negoziale, indicata come la conseguenza forse più significativa della novella del 1994, la decisione odierna appare destinata a suscitare una sorpresa ancora maggiore.

Una siffatta concezione unitaria del arbitrato, non nasce con la riforma del 1994, anzi sin dal primo apparire dell’arbitrato libero sulla scena giuridica italiana, non sono mancate ricostruzioni volte ad avvicinare quest’ultimo all’arbitrato codicistico, quando non addirittura ad affermare la sostanziale identità delle due figure.

Di conseguenza, le attuali prese di posizione della dottrina monista,  se da un lato appaiono strettamente collegate con le modifiche introdotte dalla riforma, dall’altro si pongono in una sorta di ideale continuità con tali più antiche ricostruzioni.

Tuttavia, può ritenersi che la Corte discorrendo, con riguardo all’arbitrato libero, di soluzione della lite conseguita soltanto attraverso lo strumento negoziale , di composizione amichevole o negozio di accertamento riconducibile alle parti stesse, di impegno di queste ultime ad accettare il dictum dell’arbitro come espressione della loro volontà  - quasi a voler sottolineare come si è osservato, il valore strettamente negoziale che deriva al lodo irrituale dall’essere più da vicino riconducibile alla personale volontà dei paciscenti, a fronte di quello soltanto latamente negoziale che avrebbe il lodo rituale - abbia inteso affermare il carattere dispositivo  del dictum degli arbitri liberi, collocando così sul piano (non già degli effetti bensì) della struttura la distinzione tra le due figure.

Si è osservato che la questione concernente la qualificazione degli strumenti di risoluzione delle controversie diversi dall’arbitrato rituale non sia una questione meramente terminologica.

Essa, infatti, condiziona in modo determinante la ricostruzione di quegli istituti che la legge qualifica come arbitrato irrituale.

Si preda ad esempio l’arbitrato nelle controversie di lavoro di cui agli articoli 412 – ter e 412 – quater c.p.c.. Ebbene, chi ritiene che l’arbitrato irrituale consista in uno strumento di disposizione negoziale della res litigiosa sarà portato a ricostruire l’istituto coerentemente con tale affermata natura dispositiva. Chi, viceversa, ritiene che l’arbitrato sia solo quello disciplinato dal codice, e che ogniqualvolta le parti conferiscano al terzo il potere di disporre della res controversa si è fuori dal campo dell’arbitrato, è costretto a configurare l’istituto in esame come sottospecie dell’arbitrato codicistico, cui, risulta applicabile, in quanto non derogata la disciplina di cui agli articoli 806 e segg. del codice civile.

Va peraltro soggiunto come a favore di una ricostruzione in chiave dispositiva dell’arbitrato di cui all’art. 412 – ter c.p.c. militi altresì la considerazione secondo cui, essendo in subiecta materia, consentito  (purchè gli accordi collettivi lo consentano) anche il ricorso (in ogni momento e quindi anche in seguito al fallimento del tentativo di conciliazione) all’arbitrato di diritto comune  (art. 808, comma 2, c.p.c.), essa è l’unica  che riesca ad evitare una sovrapposizione tra i due istituti, la quale, lungi dal costituire un mero inconveniente, renderebbe di fatto impossibile fornire una ricostruzione coerente del sistema.

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2. L'ARBITRATO IRRITUALE

2.1 Il compromesso

Il compromesso, anche se per i suoi effetti ha rilevanza pubblicistica, è pur sempre un negozio di diritto privato, ha una propria autonomia rispetto al rapporto sostanziale, con la conseguente insensibilità dell’uno ai vizi dell’altro; tuttavia vi è collegato da un vincolo di accessorietà, come negozio processuale che in quello di diritto sostanziale trae la propria ragione di essere.

Di più, l’eventuale invalidità del contratto non si comunica alla clausola compromissoria che vi accede, anzi può rientrare nella competenza arbitrale la stessa cognizione delle cause di nullità o annullabilità del contratto stesso.

Sia per quanto detta l’art. 18 del c.p.c. del 1865, che per l’art. 808 di quello vigente, le parti hanno l’obbligo di stipulare la clausola compromissoria nel contratto dal quale possono insorgere le controversie che si intendono devolvere alla competenza arbitrale, oppure in epoca successiva al contratto stesso.

Tale obbligo è sancito in relazione al principio della determinabilità dell’oggetto del contratto, principio applicabile anche al compromesso.

La particolare natura della clausola compromissoria, volta a derogare alla competenza del giudice ordinario, esige una più rigorosa determinabilità del suo oggetto, vale a dire delle controversie sottratte, per volontà delle parti, alla detta competenza.

Perciò il compromesso è un contratto e come  tale, è sottratto a tutte le limitazioni, prescrizioni e preclusioni proprie di quello, ed è quindi vincolato alla presenza dei requisiti fondamentali posti dalla legge.

Con l’arbitrato irrituale, le parti non demandano agli arbitri la decisione di una controversia, in sostituzione del giudice ordinario, bensì gli affidano il potere di comporre le eventuali questioni che sarebbero potute insorgere o che sono insorte tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, mediante una composizione amichevole, conciliativa o transattiva, o mediante un negozio di mero accertamento, riconducibile alla volontà degli stessi mandanti e da valere come contratto da essi concluso, poiché i contraenti si sono impegnati a considerare le decisioni degli arbitri come espressione della loro volontà.

L’arbitrato libero ha carattere contrattuale ed extraprocessualeal quale non sono applicabili le norme di natura processuale, che attengono esclusivamente alla disciplina del giudizio privato e cioè le norma dettate per l’arbitrato rituale dal c.p.c., con la sola eccezione della nomina degli arbitri.

Il compromesso comporta necessariamente un mandato agli arbitri per la composizione di una determinata controversia, ma non può escludersi che lo stesso mandato contempli altri poteri, tra i quali l’accertamento della totale infondatezza della pretesa di una parte.

Il mandato conferito all’arbitro è regolato dalle norme di legge proprie di tale istituto.

Il compromesso, così come la clausola compromissoria, non ha natura di atto processuale, ma di atto negoziale, esso rientra perciò nel novero degli atti tra vivi che sono regolati a norma dell’art. 26 delle preleggi per quanto attiene alla forma, alla legge del luogo dove vengono compiuti o da quella che ne regola la sostanza o da quella dei contraenti se comune.

La forma del compromesso è libera.

Il compromesso può essere nullo per vizio radicale di forma, con la conseguente nullità del lodo che è insanabile e può essere dedotta per la prima volta con l’impugnazione, nonché rilevata d’ufficio in ogni grado del giudizio, con il solo limite dell’impugnativa.

Attraverso l’arbitrato libero le parti, per mezzo del compromesso, possono richiedere agli arbitri un accertamento o una transazione; per individuare lo strumento scelto dalle parti occorre interpretarne la volontà, usando le regole dell’ermeneutica dettate per l’interpretazione dei contratti dagli art. 1362 e segg del codice civile.

Il compromesso per l’arbitrato libero, comportando un mandato agli arbitri per l’espletamento di un’attività negoziale in sostituzione delle parti, e non l’esercizio di una funzione giurisdizionale, determina l’improponibilità della domanda giudiziale per rinuncia all’azione e non una deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria.

Ne consegue, in questo senso, che l’eccezione rivolta ad opporre l’esistenza del compromesso non è soggetta ai limiti temporali previsti per le questioni di competenza, trattandosi di eccezione di natura sostanziale; in buona sostanza, l’improponibilità della domanda non implica una questione di giurisdizione né di competenza.

Il compromesso per l’arbitrato irrituale richiede la forma scritta ad substantiam solamente nei casi previsti dall’art. 1350 c.c. ossia quando il contratto cui si riferisce richiede la forma scritta. In tutti gli altri casi la forma scritta è richiesta unicamente ad probationem.

È stato deciso che il compromesso per arbitrato irrituale costituisce un atto negoziale riconducibile, nella sostanza all’istituto del mandato collettivo e di quello conferito anche nell’interesse di terzi, così che stipulata la relativa convenzione in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento di una delle due parti, esso non sarà soggetto alla sanzione dello scioglimento prevista per il mandato dall’art. 78 della legge fallimentare.

Tale regola iuris non opera nell’ipotesi di mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi con conseguente efficacia ed opponibilità del lodo nei confronti della curatela, e, per essa, nei confronti dell’eventuale assuntore del concordato fallimentare.

Il compromesso e la clausola compromissoria si differenziano per il loro diverso contenuto, in quanto il primo ha per oggetto la definizione attraverso l’arbitrato di una controversia insorta tra le parti, mentre la seconda riguarda la compromissione in arbitri delle eventuali controversie future che in ipotesi potrebbero derivare dal contratto  cui la causa è connessa.

La natura della clausola compromissoria è frequentemente messa in discussione, in quanto logico presupposto dell’istituto dell’arbitrato. Gia si nega che possa definirsi “compromissoria” una clausola che prevede un arbitrato irrituale e che costituisce clausola compromissoria la clausola del regolamento di condominio che, per i contrasti tra i condomini, preveda di esperire il tentativo amichevole di composizione della lite con un ragionamento che è gentile definire capzioso, ossia il ricorso dell’esercizio dell’azione giudiziaria, sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nell’autonomia privata.

La clausola compromissoria può essere definita un negozio di II grado rispetto al contratto cui si riferisce; si tratta di un negozio autonomo, distinto e indipendente dal contratto in relazione al quale è stata stipulata, del cui contenuto, pertanto, non costituisce un elemento.

La nullità del contratto, che investe diritti e situazioni sottratte sottratte alla disponibilità delle parti, ovvero per illiceità dell’oggetto, della causa, dei motivi,determina la caducazione della clausola compromissoria, che non può sopravvivere laddove si richiami un arbitrato irrituale.

Sulla forma della clausola, le posizioni della magistratura, dopo qualche incertezza, si sono attestate sulla validità del patto per relationem.

Questo si verifica per esempio – nel contratto di diritto privato – al Capitolato generale di appalto di opere pubbliche che contiene la clausola compromissoria la quale si trasferisce, attraverso il richiamo, al contratto privato stipulando.

Ove una parte abbia lasciato decorrere inutilmente il termine stabilito nella clausola compromissoria, per deferire ad arbitri irrituali la controversia nascente dal contratto, non può più promuoverla avanti l’autorità giudiziaria cui l’altra parte ha adito, in quanto la rinuncia resta ferma anche dopo la decorrenza del termine stabilito.

La clausola in questione inserita in un contratto rende improponibile il decreto ingiuntivo diretto a conseguire il pagamento del credito nascente dal contratto, dovendo la controversia essere deferita ad arbitro irrituale.

Il compromesso e la clausola compromissoria per arbitrato liberi devono essere redatti per iscritto – a pena di nullità solo se relativi a rapporti giuridici per i quali la forma scritta è richiesta ad substantiam ai sensi dell’art. 1350 c.c., mentre – se sono relativi ad altri rapporti – richiedono la prova per iscritto secondo le regole di cui all’art. 1967 c.c.; in questo caso la prova può essere costituita da qualsiasi attestazione scritta circa l’esistenza del mandato compromissorio, anche se successiva alla pattuizione ed a carattere meramente ricognitivo, purchè attribuibile alle parti.

In base al principio della non sottraibilità delle controversie al giudice naturale precostituito per legge, la risoluzione convenzionale delle controversie a mezzo di arbitrato deve ritenersi solo se si tratta di diritti soggettivi e non di interessi legittimi.

Perciò tutte le controversie relative a diritti disponibili possono essere oggetto tanto di arbitrato rituale che di arbitrato irrituale, indipendentemente dal fatto che la legge ne contempli la risoluzione in via giudiziaria mediante azione tipica.

La capacità di transigere e di compromettere è fissata dalla legge.

Preliminare ad ogni attività dell’arbitro è, quando necessiti, l’interpretazione della clausola compromissoria. Gli arbitri, da parte loro, non dovranno limitare l’esame al senso letterale delle parole, ma risalire alla comune intenzione delle parti, così come per l’appunto, si deve procedere in generale all’interpretazione di qualsiasi contratto.

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2.2 L’ arbitro

Costituisce requisito di validità della clausola compromissoria il fatto che gli arbitri vengano nominati con il concorso della volontà dei contraenti e che non siano espressione della volontà di una soltanto delle parti, in quanto il concorso di entrambe le parti nella nomina degli arbitri soddisfa un insopprimibile valore di garanzia dell’imparzialità di chi è chiamato a risolvere una controversia, valore che prescinde dalla natura rituale o irrituale dell’arbitrato.

Nell’ipotesi di arbitrato libero, date le affinità con la fattispecie dell’arbitrato rituale, qualora la parte intimata non proceda alla nomina del proprio arbitro nel termine stabilito dall’art. 810 c.p.c., l’altra parte deve esperire lo specifico previsto dal comma 2 della citata norma, in quanto la mancata norma non rende inoperante il compromesso, che resta efficace anche come fatto preclusivo della proponibilità della vertenza in sede contenziosa.

L’arbitro, così come il giudice ordinario, è giudice della propria competenza, sia che contesti l’esistenza stessa o la efficacia giuridica del compromesso o la legittimità della nomina dell’arbitro, sia che si contesti che la controversia insorta sia compresa nei limiti del negozio compromissorio.

Gli arbitri irrituali, per effetto della natura del loro incarico, devono eseguire l’incarico con l’ordinaria diligenza richiesta dall’art. 1710 c.c., la quale diligenza deve essere usata sia nella scelta che nel controllo dell’attività da esso svolta.

Un aspetto molto utile sul quale è opportuno soffermarsi in questa sede è quello relativo alla terzietà  dell’arbitro.

Premesso che l’arbitrato libero trae la sua essenza dalla volontà contrattuale liberamente espressa dalle parti, non si pone il problema del requisito dell’imparzialità dell’arbitro, requisito di ordine pubblico proprio dell’ arbitrato rituale.

Nell’arbitrato irrituale l’assenza di terzietà dell’arbitro deve essere necessariamente dedotta e proposta attraverso l’azione di revoca del mandato prevista dall’art. 1726 c.c.

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2.3 L’istruttoria

La fase dell’arbitrato libero denominata impropriamente istruttoria consiste nel complesso di attività cognitive per mezzo delle quali l’arbitro o il collegio arbitrale raccoglie gli elementi necessari per giungere alla decisione.

Le parti, in sede di clausola compromissoria o, più frequentemente, nel compromesso fissano i termini della procedura che intendono venga seguita, con libertà nell’autonomia negoziale e, senza limitazioni, che non attengano a norme generali inderogabili.

Sulla base del dettato Costituzionale (art. 24 Costituzione) e di quello codicistico (art. 1366 e 1367 c.c.), nell’arbitrato rituale è fissato l’obbligo del  rispetto del principio del contraddittorio, obbligo che alcuni ritengono applicabile anche all’arbitrato libero, o quanto meno ai momenti essenziali in cui si esplica il diritto di difesa, mentre altri escludono tale obbligo o ne ritengono dispensati gli arbitri; deve perciò assicurarsi anche nell’arbitrato libero, alle parti, la possibilità di conoscere le rispettive ragioni e difendersi e, se la natura della controversia comporta l’assunzione di prove, le parti devono poter partecipare all’istruttoria e conoscerne i risultati.

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2.4 Il lodo

La volontà del Collegio arbitrale libero, in difetto di contraria previsione contrattuale, può validamente formarsi attraverso la maggioranza dei suoi componenti.
La motivazione della sentenza arbitrale non è necessaria dato che l’arbitro, in questa sede, non svolge attività giurisdizionale ed inoltre la transazione per sua natura non richiede specificazioni, a meno che, non sia stato imposto tale obbligo dalle parti;  ciò si giustifica con l’inopportunità o l’impossibilità di enunciazione o accertamenti particolari sulla res dubia, di fronte al vantaggio di consentire un risultato globalmente rispondente ai contrapposti interessi delle parti.

La finalità della motivazione è soltanto quella di rendere palesi le ragioni che hanno determinato la decisione, finalità questa che, nel lodo arbitrale, può essere raggiunta anche con motivazione stringata.

Per quanto riguarda la forma e la sottoscrizione del lodo irrituale, esistono poche pronunce giurisprudenziali, mentre abbondano quelle relative all’arbitrato rituale, che è assoggettato dalla legge specifica ad una struttura molto più restrittiva e si deve supporre che le decisioni sull’oggetto riferite all’arbitrato rituale siano, quando liberatorie, applicabili anche a quello libero.

Nell’arbitrato libero la forma del lodo è libera, nel senso che non è vincolata alle norme del codice di procedura civile che regolano l’istituto dell’arbitrato rituale.
Il difetto di sottoscrizione del lodo, al pari della mancanza dell’esposizione dei motivi o del dispositivo o del luogo di deliberazione, integra una causa di nullità del lodo, sanabile se non tempestivamente fatta valere, nelle forme prescritte per l’impugnazione davanti alla Corte d’appello e soggetta al principio della conversione in motivi di impugnazione per nullità.

A proposito di sottoscrizione non vale a trasformare l’arbitrato da irrituale in rituale il fatto che il lodo sia stato sottoscritto non solo dal terzo arbitro, nominato dai tecnici delle parti, come richiesto dalla clausola compromissoria, ma anche dai detti tecnici, atteso che la loro sottoscrizione non può rilevare al fine di stabilire la natura dell’arbitrato, essendo questa ricollegabile soltanto alla volontà delle parti, alle quali solo compete di stabilire se affidare agli arbitri una funzione sostitutiva, di quella propria del giudice, ovvero conferire loro un mandato a definire la controversia sul piano negoziale, con una decisione riconducibile alla volontà dei mandanti.

L’arbitrato libero non postula necessariamente che la composizione della lite abbia natura transattiva con reciproche concessioni, atteso che l’intento delle parti può essere quello di eliminare l’incertezza in ordine alle contestazioni fra loro insorte, attribuendo agli arbitri il compito di determinare l’esistenza o l’inesistenza, il contenuto o i limiti di un determinato rapporto giuridico, mediante un negozio di accertamento riconducibile ai mandanti e vincolante per i medesimi.

Per quanto concerne l’indivisibilità del lodo si è discusso, in più occasioni, sulla possibilità o meno riconosciuta agli arbitri liberi di emettere lodi parziali: ciò può accadere sotto due forme. In una prima ipotesi il lodo parziale precede quello definitivo, che comprende la pronuncia su tutti gli argomenti sottoposti ad arbitrato, mentre una seconda ipotesi riguarda il lodo unico, che omette di disporre di alcuni punti del contendere.

In materia di arbitrato libero non vige, in buona sostanza, la regola della inscindibilità del lodo, da cui discende la facoltà di impugnare anche una sola parte di esso, senza che ciò importi acquiescenza della parte restante, in quanto il principio dell’acquiescenza appartiene all’ambito processuale e non può essere esteso a quello contrattuale. Spetterà al giudice adito accertare il grado di connessione che lega la parte impugnata a quella rimanente, estendendo l’indagine alla volontà delle parti, ai sensi dell’art. 1419 c.c.

In tema di pubblicazione del lodo, la decisione di arbitri liberi deve essere portata a conoscenza delle parti in qualsiasi modo, dovendosi riconoscere ad essa carattere recettizio, stante la sua natura negoziale.

Non costituisce però motivo di nullità del lodo l’avere gli arbitri fatto conoscere alle parti il contenuto della decisione che stanno per assumere anche prima di averla formalizzata con la scrittura.

Le parti possono chiedere agli arbitri e agli arbitratori di attenersi, nello svolgimento del mandato, solo alle norme del rito ( tipico dell’arbitrato rituale), all’equità (tipico dell’arbitrato libero) o ad entrambi. In mancanza di prescrizioni a riguardo, gli arbitri sono liberi di operare in base all’uno o all’altro o ad entrambi.
D’altra parte non contraddice alla natura dell’arbitrato libero la circostanza che gli arbitri debbano risolvere la controversia secondo diritto; non solo, ma è ciò che devono fare nel caro in cui da una delle parti sia avanzata l’eccezione di cosa giudicata, ossia che già esista una sentenza definiva, anche se siano stati chiamati a definire il merito della vertenza secondo equità.

L’equità consiste nel potere di deviare e deflettere dal rigore del summus ius, in relazione a particolari elementi, circostanze e situazioni non considerate e non influenti secondo il rito.

Riveste particolare interesse il rapporto tra l’arbitrato libero e il terzo, legato alla posizione che il terzo assume nella vicenda.

Il ricorso per la nomina dell’arbitro, proposto dal terzo, in adesione al ricorso presentato dalla parte che sottoscritto la clausola compromissoria, assume la funzione di compromesso, con effetto vincolante su tutte le parti della clausola stessa, ivi compreso l’effetto vincolante in ordine alla pattuita inappellabilità del lodo.

Il terzo, estraneo al compromesso e che per effetto dell’accordo raggiunto dalle parti con esso abbia subito pregiudizio, non è legittimato ad intervenire nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo, ma deve tutelare i propri diritti con un ordinario giudizio di accertamento, in quanto la controversia tra il medesimo terzo ed uno dei contraenti rientra nella competenza del giudice ordinario.
Infine, per quel che riguarda le “Clausole Vessatorie”, la clausola compromissoria per arbitrato irrituale, con la quale le parti conferiscono agli arbitri il potere di regolare in rapporto controverso, con accertamento sostitutivo della loro volontà, non necessità di specifica approvazione scritta ex art. 1341 c. c. comma 2, difettando il carattere compromissorio o comunque derogativi della competenza dell’autorità giudiziaria.

L’efficacia della clausola compromissoria, in quanto clausola vessatoria, è subordinata alla specifica approvazione per iscritto nei soli casi in cui detta clausola sia inserita in contratti con condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti (1341 comma 1 c.c.) ovvero conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari (art. 1342 comma 1 c.c.) non già quando la clausola sia contenuta nello statuto o nel regolamento di un organismo sociale del quale il soggetto entri a far parte.

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2.5 Arbitrati particolari

Si ritiene che l'arbitraggio consista nel completamento, ad opera di un arbitratore, di un rapporto giuridico in via di formazione, di una fattispecie negoziale non ancora perfezionatasi ovvero nella determinazione di uno degli elementi del negozio in formazione, che le parti non hanno voluto o potuto determinare.

Può trattarsi di un elemento non essenziale del contratto, ma essere inerente allo sviluppo successivo del rapporto in quanto il contratto è già concluso ma non completo e, senza tale completamento, non sarebbe suscettibile di esecuzione.

L'arbitratore non deve assumere decisioni su questioni controverse ma com­porre un mero conflitto di interessi.

Deve essere osservato, senza malizia, che non sembra configurabile l'ipotesi una controversia — arbitrabile — che non sottintenda un conflitto di interessi, ne il contrario di ciò.

Nell'arbitraggio è esperibile l'impugnativa per manifesta iniquità mentre nessuna differenza si ha nella valutazione dell'arbitrato per biancosegno.

Ricorre la figura dell'arbitraggio quando le parti conferiscono ad un terzo (arbitratore) l'incarico di determinare, di regola secondo equità, uno degli elementi del negozio in formazione, non ancora perfezionato per la mancanza di quel elemento, cioè l'incarico di svolgere un'attività da cui esula qualsiasi contenuto decisorio su questioni controverse.

'I'ra le definizioni assume  rilevanza quella secondo cui nell'arbitraggio le parti demandano all’arbitratore di determinare, in loro sostituzione, il contenuto di un contratto, talora in considerazione delle specifiche competenze tecniche di quello.

Come atto che concorre, comunque, alla formazione di un contratto, il mandato all' arbitratore deve rispettare i requisiti di forma imposti dalla legge per il contratto medesimo e ciò appare indubitabile.

Per esempio la commissione che ha il compito di compilare la graduatoria degli assegnatari di alloggi assume la figura dell'arbitratore .

Allorquando le parti di un rapporto giuridico conferiscono ad un terzo l'incarico di svolgere, in base alla sua specifica capacità tecnica, constatazioni e accertamenti, il cui esito esse si impegnano ad accettare, ricorre l'ipotesi della perizia contrattuale, la quale si differenzia sia dall'arbitrato rituale o irrituale con cui le parti tendono (in diversi modi) alla definizione di una controversia giuridica, sia dall'arbitraggio avente ad oggetto l'incarico di determinare uno degli elementi del negozio in via sostitutiva della volontà delle parti.

Con riguardo all'arbitrato irrituale, l'iniquità manifesta del lodo può rilevare, ai fini dell'impugnabilità del lodo per vizi della volontà contrattuale, in quanto costituisce espressione di lodo arbitrale, mentre ad essa non e applicabile la disciplina prevista dall'art. 1349 c.c., che riguarda l'arbitraggio ed e finalizzata alla tutela contro la rilevante sproporzione tra le prestazioni contrattuali contrapposte.

Solo in presenza di un arbitraggio, che ricorre quando le parti abbiano affidato al terzo arbitratore non già l'incarico di risolvere una controversia nascente da un rapporto giuridico preesistente e gia perfetto (come nell'arbitrato rituale e in quello libero), ma di determinare in un negozio giuridico in via dl perfezionamento, un elemento che le parti non hanno voluto o potuto determinare , sicchè l'arbitratore non dirime liti con poteri decisori, ma concorre con le parti nella formazione del contenuto del negozio, è possibile la impugnazione del lodo per manifesta iniquità.

La differenza tra arbitrato e arbitraggio deve essere ricercata nel contenuto del mandato conferito dalle parti al terzo (o ai terzi) perchè mentre nell'arbitrato le parti demandano agli arbitri il compito di risolvere divergenze insorte in ordine ad un rapporto precostituito in tutti i suoi elementi... mediante la formazione, sul piano negoziale, di un nuovo rapporto riconducibile esclusivamente alla volontà dei mandanti, senza l'osservanza, per la natura non contenziosa dell'incarico, delle norme contenute negli artt. 806 e ss. c.p.c. (arbitrato cosiddetto libero), nell'arbitraggio, invece, le parti demandano ad altro soggetto la determinazione, in loro vece, del contenuto di un contratto già concluso non completo, in modo che l'arbitratore, con la propria attività volitiva ed autonoma, concorre alla integrazione ed alla formazione del contenuto del negozio stesso.

Dalla decisione che precede e interessante estrarre una puntualizzazione di notevole gravità.

Trattando della definizione dell'arbitrato libero, il giudice afferma che esso si svolge senza l'osservanza, per la natura non contenziosa dell'incarico, delle norme contenute negli articoli 806 seguenti.

Altrove e stata sollevata la questione dell'assoggettamento o meno dell'arbitrato libero a tali norme, a volte con esito disastroso.

Il lodo per biancosegno è una forma di arbitrato irrituale, nella quale il compito affidato agli arbitri per la composizione della lite consiste nel determinare il contenuto sostanziale di un accordo, mediante la predisposizione di un regolamento negoziale che trascritto, su fogli preventivamente firmati in bianco dalle parti, assume il valore di una manifestazione di volontà delle stesse.

Nell'arbitrato irrituale per biancosegno, la nullità delle determinazio­ni esorbitanti dal mandato conferito agli arbitri ne travolge l'intera pronuncia, solo  se la caducazione di esse turbi l'equilibrio delle reciproche concessioni delle parti, ovvero incida su elementi essenziali del regolamento arbitrale dei ispettivi interessi.
Nell'arbitraggio è esperibile l'impugnativa per manifesta iniquità mentre nessuna differenza si ha nella valutazione dell'arbitrato per biancosegno.

La utilizzazione di fogli preventivamente firmati in bianco dalle parti è un elemento  incompatibile con la natura rituale dell'arbitrato.

Il biancosegno riempito dall'arbitro non ha caratteristiche sostanziali identiche a quelle di cui agli atti elencati dall'art. 642 c.p.c. mancando al medesimo la particolare efficacia riconosciuta dalla legge agli atti suddetti o per la loro natura o per la sacralità e le garanzie previste per la loro formazione.II cosiddetto lodo per biancosegno è sostanzialmente il risultato di un arbitrato irrituale, in quanto le parti conferiscono ad uno o più soggetti il mandato di determinare il contenuto di un accordo transattivo per la composizione di una controversia, mediante un regolamento da scrivere su fogli preventivamente sottoscritti in bianco dalle parti; tale regolamento e soggetto alle regole che disciplinano il contratto di transazione.
La perizia contrattuale è un'altra forma dell'arbitrato libero.

Si ha perizia contrattuale quando le parti deferiscono ad uno o più terzi, scelti per la loro particolare competenza tecnica il compito di formulare un apprezzamento o un giudizio tecnico, di svolgere una determinata attività tecnica di determinazione, di accertamento, di apprezzamento, di valutazione.

La caratterizzazione di questo istituto è fornita dalla natura negoziale; dell'attività svolta dal perito-arbitro e dall'efficacia vincolante della perizia arbitrale, che le parti si impegnano ad accettare come diretta espressione della loro determinazione volitiva in uno con la rinuncia alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto controverso, tutti elementi comuni con l'arbitrato libero.

L'eccezione con la quale si deduce l'esistenza di una clausola compro­missoria per arbitrato libero o perizia contrattuale, costituendo una eccezione di merito, diretta a far valere non l'incompetenza del giudice adito ma la rinunzia convenzionale delle parti all'intervento del giudice prima della definizione in via arbitrale della controversia, non è vincolata ai limiti temporali dell'eccezione di incompetenza, e può essere proposta per la prima volta anche in appello.

II principio attinente all'attrazione della causa di competenza arbitrale nell'altra, che è ad essa connessa, di competenza del giudice ordinario, non è applicabile nell'ipotesi di arbitrato irrituale o di perizia contrattuale, non essendo in tal caso in questione un problema di competenza, ma un problema di merito riguardante la rinuncia delle parti all’intervento del giudice della controversia.

La distinzione tra arbitrato irrituale e perizia contrattuale (come quella tra detti istituti e l'arbitrato rituale) va ricercata con riguardo al contenuto obiettivo del compromesso ed alla volontà delle parti; la relativa indagine, pertanto, trattandosi di quaestio facti e quaestio voluntatis, rientra esclusivamente nei poteri del giudice di merito, il cui apprezzamento e insindacabile in Cassazione, se motivato congruamente e immune da errori di diritto ovvero se condotto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e correttamente motivato.

È  elemento essenziale della perizia contrattuale, invece, il ricorso persona che sia dotata di nozioni specifiche su una determinata materia. Da ciò consegue che, mentre la determinazione dell'arbitro e dell'arbitratore libero può essere assunta, anzi ordinariamente nasce per equo apprezzamento (arbitrium boni ) ed e soggetta ad impugnativa solo per manifesta iniquità o errore di giudizio, la determinazione del perito-arbitro contrattuale è sottratta ad  ogni criterio discrezionale.
La perizia contrattuale e l'arbitrato irrituale rientrano ambedue nel genus del mandato, ma la prima è da intendersi non come una categoria a se stante rispetto all'arbitrato irrituale, ma come una sua sottospecie.

La perizia contrattuale si inserisce in una fattispecie negoziale diretta a eliminare, su basi transattive o conciliative, una controversia insorta tra le parti, mediante mandato conferito ad un terzo, cosi come avviene nell'arbitrato libero, dal quale si differenzia per il diverso oggetto del contratto, che attiene ad una questione tecnica, e non giuridica (come nell'arbitrato libero), ma non per gli effetti, dato che in entrambi i casi il contrasto è superato mediante la creazione di un nuovo assetto di interessi dipendente dal responso del terzo, che le parti si impegnano preventivamente a rispettare.

L'accertamento peritale e impugnabile soltanto per quei vizi che, a norma di legge, danno luogo a nullità o annullabilità del contratto; non deve essere redatto necessariamente con atto scritto, nel caso in cui la forma scritta sia richiesta ad probationem. Il  perito decade solamente nel caso in cui superi i termini espressamente stabiliti dal compromesso a pena di decadenza  o quando le parti che lo hanno nominato, trascorso un congruo termine, concordemente fissino un termine al suo operato e questo non venga rispettato.

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3. IMPUGNATIVA DEL LODO IRRITUALE

3.1 Lodo arbitrale e impugnazione

L’esperibilità delle impugnazioni del lodo sembra, infatti, configgere con lo scopo per il quale – o almeno uno degli scopi per cui – le parti sono spinte a prescegliere la strada dell’arbitrato e cioè “ il desiderio di por fine  (alle controversie) il più presto possibile e con l’opzione che le parti hanno esercitato a favore del giudizio degli arbitri con la correlativa negazione dell’intervento dei giudici dello stato.

Si è, così, rappresentata l’impugnabilità del lodo come “negazione dell’arbitro e dell'arbitrato”, come volontà contraddittoria con quella di compromettere e in definitiva, come una facoltà offerta alla parte di sottrarsi agli effetti della decisione arbitrale.

E i mezzi di impugnazione sono stati considerati manifestazione della diffidenza ufficiale verso il giudizio arbitrale e “quindi la riduzione dell’arbitrato ad un mero esperimento, fatto con l’occhio sempre rivolto alla giurisdizione come il vero e solo giudizio.

Si aggiunga che il codice di rito del 1865 prevedeva non solo un’impugnazione per nullità (art. 32) attribuita alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria che sarebbe stata competente a conoscere della controversia decisa dagli arbitri (art. 33) , ma anche un appello.

E il codice di rito del 1940, pur avendo cancellato l’appello, ampliando correlativamente l’ambito di utilizzazione dell’azione di nullità ( si pensi solo all’impugnabilità del lodo per violazione delle norme di diritto ex art. 829 co 2, c.p.c. sicchè si può riconoscere che l’impugnazione per nullità ex art 829 rappresenta l’unificazione, con gli opportuni adattamenti, dei rimedi precedenti dell’appello e dell’azione di nullità), ha tuttavia attribuito (828) la competenza dell’impugnazione per nullità al giudice e se la controversia fosse stata portata per la via giudiziaria, anziché arbitrale, sarebbe stato il giudice dell’appello.

Insomma il testo originario dell’art. 828 poteva portare a sostenere addirittura che il procedimento arbitrale si presentava come un procedimento di I grado che si svolgeva innanzi agli arbitri, cui seguiva l’appello innanzi al giudice ordinario.

La seconda apparente anomalia è offerta dal fatto che pur operando in un area riservata all’autonomia dei privati, ove le controversie hanno ad oggetto diritti disponibili transigibili e rinunciabili, il legislatore ha ritenuto di dover negare alle parti il diritto di effettuare la rinuncia preventiva a far valere l’azione di nullità per tutti i motivi elencati nell’art. 829 c.p.c. e ha sancito la regola che l’impugnazione per nullità è ammessa nonostante qualunque rinuncia, nei casi elencati nell’art,. 829 co 1, c.p.c..

Si deve poi ricordare che a norma dell’articolo 808 ult. Co., c.p.c., la clausola compromissoria rituale contenuta in contratti o accordi collettivi o in contratti individuali di lavoro è nulla ove autorizzi gli arbitri a pronunciare secondo equità “ovvero dichiari il lodo non impugnabile”.

E per giustificare questo vincolo imposto alla libertà dei privati si è invocata l’esigenza di contemperare la libertà dei privati con l’ordine pubblico.

A questo punto non si può fare a meno di notare la rilevanza delle modifiche che hanno interessato il codice di procedura civile in epoca recente, fino a quella apportata dalla legge delega n. 80\2005, convertita il D.Lgs n. 40\2006, in tema di arbitrato irrituale di cui si parlerà ampiamente nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.

La prima modifica riguarda proprio il giudice competente per l’impugnazione per nullità.

Come si è ricordato, il testo originario dell’art. 828 attribuiva questa competenza al giudice che nell’ipotesi di esercizio dell’azione innanzi al giudice ordinario, avrebbe operato come giudice d’appello.

La legge 25\1994 ha, invece, attribuito la competenza per tutte le impugnazioni del lodo arbitrale – impugnazione per nullità art 828 co 1 c.p.c., revocazione ed opposizione di terzo, art. 821 c.p.c. co 4 – alla corte d’appello.

Attribuzione di competenza che non è risultata priva di significato, posto che la corte drappello era anche il giudice tipico delle delibazioni, il giudice che al tempo dell’entrata in vigore della legge 25\1994 dava “ingresso nel nostro ordinamento a decisioni, giurisdizionali o arbitrali provenienti da altri ordinamenti.

La seconda modifica ha investito il sistema della delibazione che, nel codice del 1940, era configurato come meccanismo di controllo necessario della sentenza straniera.

La legge 31 maggio 1995 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, palesemente ispirato ai principi della Convenzione di Bruxell del 1968, tenendo distinti riconoscimento ed esecutività, ha elevato a regola generale, il riconoscimento automatico della sentenza e dei procedimenti stranieri, riservando ai giudici nazionali e in particolare alla corte d’appello solo la fase di concessione del provvedimento di esecutività, nonché l’eventuale giudizio di contestazione della sussistenza delle condizioni stabilite per il riconoscimento.

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3.2 Il procedimento di impugnativa del lodo

Poste queste premesse, è possibile passare ad esaminare le norme che regolano il procedimento di impugnazione, procedimento comune fino a prima della riforma del. D.Lgs n. 40\2006 sia per il lodo rituale che per quello irrituale.

Avverso il lodo reso in sede di arbitrato libero, che ha natura di atto negoziale riconducibile alla volontà espressa delle parti con il conferimento del mandato ad arbitri, è esperibile oltre all’impugnazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 5, legge  11 agosto 1973, n. 533 e dell’art. 2113 c.c., anche l’azione di nullità, ex art .1418 c.c. e quella di annullamenti per incapacità delle parti.

Con la riforma introdotta dalla legge 25\1994, che ha modificato l’art. 828, co 1 c.p.c., è stata attribuita la competenza per tutte le impugnazioni proponibili contro il lodo arbitrale alla Corte d’appello, nella circoscrizione è stata posta la “sede” dell’arbitrato.

L’impugnazione per nullità si propone con atto di citazione, che deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione del motivo di nullità denunciato.

Quanto alla forma dell’atto introduttivo, non sorgono problemi particolari. Problemi sorgono, invece, per la sua notifica.

Si ritiene pacificamente in dottrina, che non sia applicabile in subiecta materia la disciplina degli articoli 170 e 285 c.p.c. in tema di notificazione della sentenza al difensore costituito, e dell’art 330 c.p.c. in tema di notificazione dell’impugnazione; si deve però ammettere che sono applicabili anche in tema di arbitrato la norma  dell’art 47 c.c. che permette di eleggere domicilio speciale  nonché le norme le norme sulle notificazioni di cui agli art. 137  c.c. e ss del c.p.c..

Posta tale disciplina, il difensore investito del mandato di rappresentanza della parte nel giudizio arbitrale, non assume, per il mero conferimento del mandato, la funzione di destinatario esclusivo della notificazione del lodo, nonché del relativo atto di impugnazione, si deve verificare, caso per caso, se la parte abbia o meno effettuato  un’elezione di domicilio speciale presso lo stesso difensore, per le quali coincidano le condizioni prescritte dell’art. 141 c.p.c., in quest’ultima ipotesi le notifiche dovranno essere effettuate presso il domiciliatario, sicchè l’eventuale notifica del lodo o dell’impugnazione alla parte  personalmente saranno viziate da nullità ed idonee, rispettivamente, a far decorrere il termine per l’impugnazione o ad istaurare il giudizio di impugnazione.

Viceversa quando vi sia un’elezione di domicilio, ma senza coincidenza delle condizioni di cui all’art 141 co 2 c.p.c. l’eventuale domiciliatario anche se trattasi, come è quasi certo che accada dello stesso difensore della parte nel giudizio arbitrale, non sarà destinatario necessario ed esclusivo, ma meramente facoltativo di quelle notifiche, che potranno quindi essere effettuate, alternativamente, alla parte personalmente o presso detto domiciliatario.

La legge 25\1194 ha disciplinato la normativa riguardante il termine per l’impugnativa del lodo: in primo luogo si fa riferimento al termine breve, conseguente alla notifica del lodo che è stato elevato da trenta a novanta giorni , in secondo luogo il termine di decadenza, fissato in un anno, decorre dalla data della ultima sottoscrizione del lodo.

Infine è opportuno precisare che questi termini avendo un’ indubbia natura processale restano sospesi ne periodo feriale a norma della legge 742\1969.
Per quanto riguarda la normativa relativa al procedimento di impugnazione, si deve fare riferimento al combinato disposto dell’art. 827 c.p.c. con le norme che regolano il procedimento davanti al giudice adito.

La parte che impugna ha l’onere di depositare tutti gli atti necessari per il giudizio di impugnazione, fra i quali anche copia autentica del lodo impugnato, nonché il fascicolo degli atti  e dei documenti del giudizio arbitrale tale omissione, seppure non sanzionabile con la declaratoria di improcedibilità non è certo scevra di conseguenze a carico della parte che ha proposto l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale: infatti, tale omissione può determinare comunque l’inamissibilità dell’impugnazione, giacchè la parte non offre al giudice la dimostrazione che: 1) il lodo è impugnabile ex art. 827 c.p.c. e, quindi,  che non è decorso il termine annuale previsto, a pena di decadenza, dall’art. 828 c.p.c., co 2; 2) il lodo è inficiato da una delle nullità elencate nell’art. 829 c.p.c.

Anche nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale è applicabile il principio secondo cui la proposizione dell’impugnazione principale determina, nei riguardi di tutti coloro cui il relativo atto venga notificato, l’onere – a pena di decadenza – di esercitare il proprio diritto di impugnazione nei modi e nei termini previsti per l’impugnazione incidentale, in applicazione della regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la tessa sentenza, in forza della quale l’impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell’unico processo nel quale sono destinate a confluire per essere decise simultaneamente tutte le successive che restano vincolate al canone dell’incidentalità rispetto a quella.

Ne consegue che se pure ogni impugnazione proposta in via autonoma successivamente alla prima è suscettibile di conversione in impugnazione incidentale la sua ammissibilità resta comunque condizionata al rispetto dei termini per questa previsti.

Il lodo di incompetenza ovvero il difetto di potere decisorio arbitrale, in quanto contenente la soluzione di una questione di merito, è comunque idoneo a passare in giudicato e acquisire il crisma della definitività, in mancanza dell’impugnazione immediata.

In tema di arbitrato, deve ritenersi ammissibile, a seguito delle modifiche introdotte, dalla legge 25\1994, l’immediata impugnazione di un lodo parziale (di una decisione, cioè, che non esaurisca il mandato di decidere la controversia affidato dalle parti agli arbitri) che statuisca soltanto sul “an debeatur”, statuizione che può, del tutto legittimamente, definirsi attinente ad “una parte del merito”, riservandosi al prosieguo la decisione definitiva sul “quantum debeatur”.

È inammissibile l’impugnazione per nullità ex art. 829 n. 4 c.p.c. del lodo irrituale, non potendovi essere alcuna questione di competenza in sede di arbitrato libero nel quale la decisione oltre i limiti del mandato ricevuto dagli arbitri può incidere solo sul piano della mera invalidità della clausola come modificata e interpretata dagli arbitri stessi, da farsi valere davanti all’autorità giudiziaria ordinaria nell’ambito di un normale giudizio di cognizione.

In ordine ai motivi di impugnazione è utile parlare di errore di fatto o sostanziale: per errore di fatto o sostanziale si intende quello che attiene alla formazione della volontà degli arbitri, quando questi ultimi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà, vale a dire non abbiano preso visione degli elementi della controversia o ne abbiano supposto altri inesistenti, ovvero, abbiano dato come contestati fatti pacifici e viceversa.

Solo in presenza di un arbitraggio è possibile la impugnazione del lodo per manifesta iniquità.

In tema di arbitrato irrituale qualora gli arbitri decidano la vertenza sottoposta al loro esame secondo diritto e non secondo equità, non è configurabile alcun eccesso dai limiti del mandato nel caso in cui sia stato affidato loro il compito di esprimere le loro deliberazioni “senza formalità di procedura e secondo equità”, poiché, in mancanza di limiti specificatamente prefissati, gli arbitri liberi hanno gli stessi poteri dispositivi dei mandanti in ordine alla definizione del rapporto controverso e possono spaziare dalla transazione al mero accertamento, dalla rinunzia al pieno riconoscimento dei diritti dell’una o dell’altra parte; né può ritenersi incompatibile con l’arbitrato irrituale di equità il fatto che, per pervenire alla definizione negoziale della vertenza, gli arbitri debbano interpretare norme giuridiche, snza ravvisare alcuna necessità di apportare alla disciplina giuridica i temperamenti equitativi dettati dalla specifica situazione sottoposta al loro esame.

La violazione del principio del contraddittorio nel corso di un arbitrato irrituale, po’ assumere rilevanza ai fini della impugnazione del lodo, qualora configuri un ipotesi di errore che abbia inficiato la volontà contrattuale espressa dagli arbitri.

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3.3 Impugnazione del lodo irrituale

È noto che per costante orientamento giurisprudenziale il lodo irrituale può essere oggetto di una delle impugnative negoziali previste dal codice civile, per mezzo di un ordinario giudizio di cognizione e non anche di una delle impugnazioni previste per il solo provvedimento rituale dagli art. 829 ss c.p.c..

In particolare valgono qui i vizi di (in)capacità o consenso delle parti o degli arbitri.

Si ritiene, cioè, che il lodo arbitrale irrituale sia impugnabile soltanto per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo, e l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico o dell’arbitro stesso; in particolare, l’errore rilevante attinente alla formazione della volontà degli arbitri è esclusivamente quello che si configura quando questi abbiano avuto una falsa rappresentazione della realtà per non aver preso visione degli elementi della controversia o per averne supposto altri inesistenti, ovvero per aver dato come contestati fatti pacifici ( o viceversa), mentre è preclusa ogni impugnativa per errore di diritto, sia in ordine alla valutazione delle prove che in riferimento alla idoneità della decisione adottata a comporre la controversia.

In tal sede, ad esempio, la violazione del principio del contraddittorio non si pone come vizio del procedimento ma come violazione del contratto di mandato e può rilevare esclusivamente ai fini dell’impugnazione ai sensi dell’art. 1429 c.c., ossia come un errore degli stessi arbitri che abbia inficiato la volontà contrattuale dai medesimi espressa con la conseguenza che la sua deduzione comporta un’indagine sull’effettivo contenuto del mandato stesso, indagine per altro riservata al giudice di merito e non censurabile in cassazione, se correttamente e logicamente motivata.

Si è in dottrina messo in evidenza come l’elaborazione giurisprudenziale abbia via via assimilato l’errore causa di impugnazione ed annullamento del lodo irrituale all’errore revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c.; tanto che bisogna che si tratti, secondo il consolidato orientamento di una erronea percezione della realtà controversa: “anche l’incapacità o i vizi del consenso determinano l’invalidità del lodo libero solo se hanno dato luogo ad una falsa percezione degli elementi di fatto o di diritto della controversia in capo agli arbitri, vale a dire se si risolvono in un errore di fatto”.

Problema peculiare, più volte emerso nella prassi, è quello del regime di impugnazione del lodo (irrituale) cui malamente sia stato conferito l’exequatur del lodo irrituale, dunque, che sull’errato presupposto della sua diversa qualificazione sia stato depositato.

Giurisprudenza sostanzialmente costante ha sempre affermato, in proposito, che a nulla vale l’eventuale erronea qualificazione degli arbitri intorno alla natura del proprio provvedimento e che la Corte d’appello investita della impugnazione per nullità di un lodo siffatto, deve comunque dichiarare inammissibile il gravame, potendo essa stessa d’ufficio rilevare il carattere negoziale del provvedimento impugnato.

Difatti in ordine alla individuazione della natura del lodo in concreto pronunciato ed al relativo regime di impugnazione, si è sempre ritenuta prevalente in giurisprudenza la sostanza piuttosto che la forma del provvedimento.

Tuttavia, si è correttamente notato che tale approccio contraddice altri indirizzi giurisprudenziali, pur costanti, nei quali (è massimamente in ordine, ad esempio, al caso della sentenza che abbia pronunciato su una opposizione all’esecuzione, piuttosto che su una opposizione agli atti esecutivi, la S. Corte è invece costante nell’opposta soluzione della prevalenza della forma; ed individua il regime del provvedimento in base al qualificazione giuridica dell’azione come prospettata dal giudice a quo e la dottrina ha ormai ampiamente messo in evidenza come l’indirizzo ora in commento gravemente mini ogni certezza sul regime del provvedimento in concreto pronunciato dal collegio arbitrale.

Sta di fatto che la determinazione della natura rituale o irrituale di un lodo arbitrale deve essere accertata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione, siccome attinente ai limiti dell’impugnazione stessa.

La corte di Appello investita dell’azione di nullità di lodo arbitrale ritenuto irrituale, deve limitarsi a dichiarare l’inammissibilità dell’ impugnazione non potendo emettere una pronuncia di incompetenza con termine per la riassunzione davanti al Tribunale reputato competente, stante la inapplicabilità della transatto iudicii nel caso di incompetenza per grado.

Qualora la controversia circa la natura rituale o irrituale del lodo sia sollevata con il ricorso per cassazione la Suprema Corte deve procedere all’esame diretto del contenuto della clausola compromissoria, senza limitarsi al controllo della decisione del giudice di merito, incidendo la relativa qualificazione sul problema processuale dell’ammissibilità dell’impugnazione del lodo per nullità.

Se tale è l’orientamento giurisprudenziale, occorre segnalare che la dottrina propone, invece, un più ampio e variegato approccio.
Già prima dell’ultima riforma del procedimento di cui agli articoli 806 ss c.p.c., si lasciano apprezzare autorevoli e complesse ricostruzioni. E così, ad esempio, vi era chi efficacemente suggeriva di porre l’accento sulla possibile distinzione tra l’arbitrato transattivo e l’arbitrato giudizio, secondo che la clausola di arbitrato libero avesse proposto agli arbitri una “composizione amichevole, conciliativa o transattiva” o, piuttosto, un negozio di mero accertamento.
E poi ulteriormente distinguendo nell’ambito della seconda specie di giudizio, l’arbitrato libero di equità dall’arbitrato irrituale di diritto.
La dottrina ricordava che il lodo libero può essere impugnato (con i rimedi negoziali sia per vizi derivati dalla convenzione arbitrale che per vizi propri.
 Nel primo caso il provvedimento è impugnabile con l’azione di nullità, “per incapacità delle parti o degli arbitri e per violazione di norme inderogabili di legge” o ancora, con l’azione di annullamento per violenza o dolo.
Esperibile risulta anche l’azione di cui all’art. 1711 c.c. per eccesso degli arbitri dai limiti del mandato (ivi compreso il caso in qualche modo opposto, del difetto parziale di pronuncia).

Ed infine, l’eventuale nullità del compromesso o della clausola compromissoria si traduce nella possibilità di dedurre il vizio derivato del lodo in un giudizio ordinario di primo grado.

È, invece, nella seconda ipotesi (quella dei izi propri del lodo) che la dottrina poneva l’accento sulla predetta differenza fra arbitrato transattivo ed arbitrato giudizio. Ed infatti, per il primo caso varrà, in relazione ai vizi qui considerati il disposto degli articoli 1966 ss c.c.con i necessari adeguamenti : bisognerà che le parti e non certo gli arbitri abbiano malamente proposto una transazione per diritti indisponibili o siano state consapevoli della temerarietà della pretesa.

Viceversa, all’esito di un arbitrato – giudizio, il lodo sarebbe impugnabile (non ai sensi dell’art 1969 c.c. ma) alla luce dell’art. 1711 c.c. per violazione o falsa applicazione delle norme; vizio, questo, inquadrabile nella fattispecie del superamento del mndato di cui discorre la norma da ultimo citata.

E l’inimpugnabilità del provvedimento per causa di lesione, sarà qui confermata in virtù (soltanto) del principio dell’insindacabilità del giudizio di merito del collegio arbitrale.

Vi era, poi, la tendenza ad ampliare la categoria dei motivi di impugnazione del lodo libero, anche al caso del provvedimento che fosse stato erroneamente pronunciato secondo diritto in arbitrato (irrituale) di equità.

Ma soprattutto, dopo la riforma del 1995, si scorge un nuovo e più drastico approccio che conduce a riconoscere la possibilità di spendere anche avverso il lodo irrituale tutti i motivi di impugnazione di cui all’art. 829 c.p.c.. ed anzi, autorevolmente ci si è spinti come pretesa conseguenza della riforma del 1994 e dell’asserito tramonto dell’arbitrato irrituale, finanche ad affermare l’impugnabilità del lodo libero soltano ed anch’esso con i rimedi di cui agli articoli 828 ss c.p.c.

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3.4 L'impugnazione per errore nella determinazione degli arbitri irrituali

Si deve ora considerare quella che, tra le questioni relative ai vizi che inficiano direttamente il contenuto del lodo irrituale, è la più dibattuta e di maggior rilievo pratico: la possibilità, cioè, di far valere in sede di impugnativa del lodo, gli errori del giudizio ed, in particolare, di diritto in cui siano incorsi gli arbitri.

Come noto, in tema di impugnazione del lodo irrituale per errore, l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza circoscrive l’ambito dell’errore rilevante all’ipotesi di errore di fatto essenziale, con l’esclusione dell’errore di giudizio e di diritto in particolare.

Più precisamente, si ritiene che l’errore rilevante ai fini dell’impugnazione del lodo sia solo quello che riguarda l’erronea percezione dei fatti da parte degli arbitri, se e quando essi non hanno esaminato (o lo hanno fatto in modo incompleto) i fatti sottoposti al loro giudizio o ne hanno ritenuti altri inesistenti ovvero hanno dato per pacifici fatti controversi o viceversa.

Avrebbero, perciò, rilievo, in tale sede, solo quei vizi che attengono ad una falsa percezione della realtà da parte degli arbitri e non, invece, quelli concernenti la valutazione delle deduzioni istruttorie e di merito né gli eventuali errori in cui gli arbitri siano incorsi nella interpretazione ed applicazione delle norme rilevanti per la definizione della controversia.

A questo proposito, una parte della dottrina ha osservato ce, quella così delineata, è una specie d’errore diversa da quella che risulta dagli art. 1428 – 1429 c.c.
Queste disposizioni infatti, disciplinano la rilevanza dell’errore puramente e semplicemente, senza distinguere tra errore di percezione ed errore di giudizio. 
Se ne deduce quindi, che ogni errore purchè essenziale e riconoscibile dovrebbe rendere invalido il lodo irrituale.

Inoltre, l’art. 1429, n. 4 c.c., prevede espressamente tra le ipotesi di errore essenziale, l’errore di dritto, che invece l’orientamento dominante  esclude dal novero dei motivi di impugnativa del lodo irrituale.

In realtà – si è osservato – questa opinione restrittiva, pur sostenendo l’impugnabilità del lodo irrituale per gli stessi vizi che di norma rendono invalido qualsiasi negozio giuridico, si allontana dal terreno del diritto sostanziale.essa, si avvicina invece, ad una fattispecie di carattere processuale, quella della revocazione della sentenza. Come detto ,in precedenza, l’errore rilevante, così delineato si accosta sensibilmente all’errore di fatto revocatorio descritto dall’art. 395, n. 4 del codice di rito, che com’è noto, considera l’ipotesi in cui la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta la inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.

Peraltro, come emerge anche dalla circostanza che nella giurisprudenza è assai frequente un richiamo espresso ed esplicito alla norma di cui all’art. 395 c.p.c. n. 4, seppure la definizione di errore rilevante per la impugnativa del lodo che sia sostanzialmente identica a quella posta da questa disposizione, non sembra sussistere una perfetta coincidenza tra l’errore invalidate il dictum degli arbitri e quello revocatorio, così comeinteso dalla stessa giurisprudenza.

Questa, infatti, è costante nel ritenere che l’errore di fatto revocatorio consiste non già in una erronea valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti – cioè in un errore di giudizio – bensì in una falsa percezione di ciò che emerge dagli atti e che non soltanto si presentava come non controverso, ma anche non controvertibile, e non poteva, così dar luogo ad apprezzamenti di alcun genere.

L’errore revocatorio, quindi secondo, la giurisprudenza deve avere carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza la necessità di particolari indagini e argomentazioni. invece, la giurisprudenza in tema di impugnazione del lodo irrituale sembra disegnare una specie di errore ai confini meno angusti di quelli della mera svista di carattere materiale di cui all’art. 395, n.4, così come tradizionalmente interpretato.

Infatti, tra le ipotesi di errore esenziale di fatto si menziona anche quella in cui l’arbitro abbia ritenuto pacifici fatti contestati  e viceversa; in particolare, si si fa significativamente riferimento all’errore dell’arbitro che abbia ritenuto un fatto escluso da entrambe le parti o non avvenuto un fatto da esse affermato concordemente.
Il tipo di errore che emerge dall’opera ermeneutica della giurisprudenza ha dunque maglie un po’ più larghe  di quello rilevante ai sensi dell’art395, n. 4 c.p.c.

Lo strumento con cui far valere i vizi che incidano direttamente sul contenuto del lodo sarà l’iumpugnativa per manifesta iniquità od erroneità di cui all’art.1349c.c.; mentre, le impugnazioni negoziali dovranno circoscriversi ai vizi che colpiscano il compromesso o la clausola compromissoria.

Si deve subito osservare che l’applicazione dello schema di cui all’art. 1349 c.c. in particolare a quale tipo di errore esso si estenda.

Si deve subito osservare che l’applicazione dello schema di cui all’art. 1349 al lodo irrituale potrebbe condurre ad una soluzione del problema in esame assai suggestiva, ma – come si preciserà – non condivisibile.

Se, infatti, le parti richiedono all’arbitro libero una determinazione da compiersi alla stregua di determinati criteri criteri, cioè di regole equitative o di diritto, ben potrebbe  farsi valere, con lo strumento previsto  dall’art. 1349, l’uso errato, ad opera  dell’arbitro, crateriche, per espressa indicazione delle, parti, devino presiedere al compimento della compimento della determinazione ad esso  demandata.

 Di conseguenza, in caso di arbitrato secondo diritt, l’errata intepretazione od applicazione, da parte degli arbitri, delle norme giuridiche rilevanti per definizione del controversia potrebbero essere sanzionate  con l’impugnazione di cui all’art. 1349 del codice civile.

Tuttavia – come si è già anticipato - si tratta non condivisibile.

Anzitutto, nell’individuare l’ambito dell’impugnativa ex art.1349 del lodo irrituale , non possono non avere rilievo la natura e le caratteristiche del negozio del negozio in cui la determinazione del terzo s’inserisce.

Ammettere l’impugnabilà del lodo per errori di diritto e, quindi, di giudizio, significherebbe snaturare il negozio di accertamento in cui il dictum arbitrale viene inglobato.

Invero, l’irrilevante, nell’ambito del negozio di accertamento dell’errore di diritto si fonda su argomentazione che non semrano confutabili.

Essa deriva dallo scopo del negozio d’accertamento, che è quello d’imprimere certezza in via dispositiva ad un precedente rapporto attraverso un nuovo regolamento dettato con il nuovo negozio di accertamento, al quale le parti debbono uniformare la propria condotta. Si esclude, ogni pretesa o ragione che sia con esso in contrasto e, perciò, anche il rilievo di eventuali errori di diritto aventi per oggetto norme giuridiche incidenti sulla pregressa ed incerta situazione giuridica.

Inoltre, l’esigenza, di non frustrare lo scopo del negozio d’accertamento, ammettendone l’impugnativa per errore di diritto, emerge dalla disposizione di cui all’art. 1969 c.c., che esclude, quanto alla transazione, la rilevanza di tale errore. Il principio posto in tale norma, infatti, viene esteso ance al negozio di accertamento, la cui funzione, al pari della transazione, è quella di sostituire la certezza giuridica all’incertezza. Un altro ostacolo che si frappone alla possibilità di far valere ex art. 1349 gli errori di giudizio e di diritto particolare, è, poi rappresentato dalla difficoltà di individuare un error in judicando che abbia i baratteri dell’errore manifesto, così come richiesto da tale norma.

Anzi, argomentando dalla norma di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c., si potrebbe dire che proprio l’esistenza di un’attività di giudizio esclude, per definizione, la possibilità di un errore immediatamente percepibile e, così, rilevabile senza necessità di compere particolari valutazioni.

Se, quindi, l’errore di diritto non è sanzionabile ex art. 1349, perché altrimenti si vanificherebbe la funzione del negozio in cui la determinazione del terzo è inserita, l’area degli errori censurabili con tale impugnativa risulta alquanto sottoscritta.

Vi entrerà, innanzitutto, l’errore di fastto, sussistente quando l’arbitro si sia falsamente rappresentatela la realtà su cui doveva incidere il proprio dictum, a causa di circostanze che abbiano alterato la percezione materiale, da parte del terzo, dei dati di fatto sottoposti al suo esame.

Un tale errore, inoltre, è sicuramente riconoscibile a prima vista, senza necessità di particolari indagini, come esige l’art. 1349 c.c..

Vi è poi, un’altra ipotesi di errore che è suscettibile di essere fatta valere con l’impugnativa per manifesta erroneità di cui all’art. 1349 c.c.

Occorre, infatti,  tenere presente che, soprattutto  nella giurisprudenza, è pacifica la inapplicabilità all’arbitrato irrituale del principio della autonomia della clausola compromissoria.

La natura del negozio di secondo grado della clausola in arbitrato libero comporta, quindi, che essa nono possa sopravvivere all’effetto caducatorio determinato dalla nullità del contratto cui si accede.

Di conseguenza, la nullità del contratto – che fra l’atro, ex iure positivo, ricompressa tra le questioni non disponibili, tanto che essa non può essere oggetto di transazione ai sensi dell’art. 1972 c.c. , primo comma, a pena di invalidità della transazione stessa  - la conseguente nullità della clausola compromissoria che vi accede determina la insussistenza di potere in capo all’arbitro, che, in tal caso, dovrebbe, per così dire, “declinare la propria competenza.

Ove, invece, in violazione della regola della comunicazione della nullità del contratto del patto arbitrale irrituale, l’arbitro definisca ugualmente il merito della controversia , si potrà far valere  anche l’errore dell’arbitro sulla sussistenza di quei presupposti di fatto – in particolare, la nullità del contratto cui accede la clausola compromissoria – che sonno funzionali alla decisione in ordine ad una questione di  sicura rilevanza pubblicistica: la invalidità del lodo pronunciato  sulla base di una clausola compromissoria invalida in conseguenza della nullità del contratto cui accede.

Più in generale, si dovrebbe ammettere la possibilità di far valere l’errore degli arbitri sulla esistenza dei presupposti di fatto relativi alla applicazione di tutte quelle norme imperative – come quelle della nullità – dalle quali dipende l’esistenza stessa del potere decisorio degli arbitri.

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3.5 La riforma dell’arbitrato irrituale

Il D. Lgs. 40\2006, sulla base della delega contenuta nella L 80\2005, ha cambiato l’intero volto dell’arbitrato, sia rituale che irrituale ed in particolare, nella riforma della parte del codice di procedura civile che si occupa dell’arbitrato, apporta molte modifiche; in particolare, attuando tale delega, l’art. 808 c.p.c. chiarisce, diremmo in modo condivisibile, che l’arbitrato libero e l’arbitrato rituale sono due fenomeni diversi, essendo quello un fenomeno negoziale e questo un fenomeno di giurisdizione privata.

Infatti, emergono testualmente due punti fondamentali: in primo luogo che il lodo libero è una determinazione  contrattuale ed esso non ha gli effetti di cui all’art. 824 c.p.c., ossia gli effetti di una sentenza dell’autorità giudiziaria; in secondo luogo all’arbitrato libero no si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile per l’arbitrato rituale.

Da ciò il legislatore delegato ricava le solite naturali conseguenze derivanti dalla negozialità dell’arbitrato libero, vale a dire: che il lodo irrituale, per un verso, è impugnabile di fronte al giudice di primo grado ordinariamente competente (ed è ovvio che, trattandosi di negozio giuridico, non vale il principio dell’onere dell’impugnazione, vigente, invece per le sentenze, nel senso che l’invalidità del lodo libero, se può essere fatta valere con un’azione, peraltro può essere fatta valere incidentalmente, ossia in via di eccezione ) e, per altro verso, non è munibile di exequatur come il lodo rituale.

Sulla necessità indicata dalla delega, di assicurare sempre la tutela cautelare in collegamento all’arbitrato libero nulla è detto, perché il problema è già stato risolto dall’art. 669 quinquies c.p.c.

Invece , sono elencati alcuni motivi d’impugnazione del lodo libero, specificando che questo che questo è annullabile quando: manca un valido patto compromissorio o gli arbitri hanno pronunciato oltre i limiti di questo, sempre che la relativa eccezione sia stata sollevata di fronte all’arbitro; se vi è un vizio di costituzione del collegio arbitrale, in quanto non sono state seguite le modalità stabilite dalle parti; quando il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere arbitro ai sensi dell’art. 812 c.p.c., quando gli arbitri non hanno rispettato le regole imposte dale parti come condizione di validità del ldo; se non è stato rispettato il principio del contraddittorio.

In queste disposizione è stato chiarito il ruolo della volontà delle parti, in particolare prevedendo che queste possano individuare regole che gli arbitri devono osservare a pena di invalidità del lodo.

Inoltre posto che sembra non potersi ritenere che l’art. 808 c.p.c. contenga un elenco tassativo di motivi di impugnazione, tra le regole  la cui violazione da parte degli arbitri può essere lamentata, crediamo che debbano essere anche inseriti gli eventuali criteri di valutazione che le parti possano avere imposto agli arbitri
Insomma le parti hanno facoltà di affidarsi all’arbitrio  mero o al cd arbitrium boni viri, imponendo agli arbitri di rispettare un sistema assiologico di valutazione per la soluzione della lite.

In quest’ ultimo caso, pur restando il lodo insindacabile nel merito, ossia non annullabile in quanto ingiusto, tuttavia si può configurare un annullamento del lodo per eccesso di potere, nella misura in cui risulta evidente che gli arbitri si sono svincolati dal sistema assiologico, che le parti avevano loro imposto.

In altri termini, se le parti lo hanno voluto, avverso il lodo irrituale può spendersi quello stesso motivo d’impugnativa che l’art. 1349 c.c. prevede per l’arbitraggio in caso di manifestazione iniqua o erronea.

Se il legislatore ha voluto così ribadire la netta distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato libero, affermando chiaramente che a questo non si applicano le norme del codice di rito  dettate per l’arbitrato rituale, ne escono rafforzate tutte le differenze teoriche e pratiche tra le due forme di arbitrato.

Sul principio l’onere di impugnazione e sull’exequatur del lodo abbiamo già detto, essendosi qui il legislatore espresso in modo manifesto.

La legge 40\2006 inoltre ha chiarito altri aspetti: il patto compromissorio libero, se non è un contratto processuale, è evidentemente un contratto sostanziale, che incide sul rapporto controverso, ed ad esso non si applicano le norme  dettate per l’eccezione di patto compromissorio rituale;
non vige per la convezione di arbitrato libero il principio del arbitrato libero il principio della forma scritta ad substantiam, trovando piuttosto applicazione il principio, sancito dall’art. 1967 c.c. per la transazione, la forma scritta ad probationem (infatti non si crede che il rinvio alla disposizione scritta contenuta nell’art. 808 – ter c.p.c., imponga la forma scritta ad substantiam);
niente impone che sia rispettato il principio del numero dispari nella formazione del collegio;  non opera il principio della ricusazione del arbitro; non opera alcuna forma di assistenza giudiziaria, né nella formazione del collegio, né nell’istruzione probatoria; non valgono le norme sul termine dettate per l’arbitrato rituale, per cui, se le parti non hanno fissato il termine per la pronuncia del lodo irrituale, gli arbitri, mancando un termine di legge, devono semplicemente agire secondo la diligenza ai sensi dell’art. 1176 c.c. (resta sempre salva la possibilità che una parte chieda la fissazione del termine al giudice ai sensi dell’art. 1183 c.c.)

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