È POSSIBILE INDIVIDUARE NELLA FINE DELLA CONVIVENZA IL CONFINE TRA IL DELITTO DI MALTRATTAMENTI (ART. 572 C.P.) ED IL DELITTO DI ATTI PERSECUTORI (ART. 612 BIS C.P.).
(Corte di Cassazione, sez. VI penale, sentenza 15 settembre 2022 – 3 marzo 2023 n. 9187)
La storia che ha portato alla recente pronuncia, riguardava il crudele comportamento di un uomo ai danni della compagna, un “caso di scuola”, quella vicenda che, ad oggi, è purtroppo oggetto delle più comuni notizie di cronaca: ossessione del controllo, ripetuti atti di violenza fisica e psicologica, minacce quotidiane, il tutto anche alla presenza dei figli, di tenera età, e durante il periodo di gravidanza della compagna.
Le condotte violente nei confronti della donna venivano attuate in due distinti periodi: il primo caratterizzato dalla convivenza dei due; il secondo segnato dall’interruzione della stabile frequentazione.
Da qui il quesito: qual è la differenza tra il reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.), più grave, e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.)?
Innanzitutto il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia, volto a tutelare il soggetto che faccia parte di un gruppo di persone tra le quali si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, da comportamenti che colpiscano l’incolumità fisica e psichica della vittima.
Si tratta di un “reato proprio” cioè di un reato che può essere commesso solo da chi ricopre un ruolo nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio…), oppure da chi rivesta una posizione di “affidamento” nelle aggregazioni assimilate alla famiglia (organismi di educazione, istruzione…).
Il reato di atti persecutori, invece, è un reato contro la persona e contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque compia atti di minaccia o molestia ripetuti.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia si inserisce, perlopiù, in un «contesto affettivo protetto», caratterizzato come tale da «legami affettivi stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». «Dal punto di vista della vittima la reazione è inibita perché profondo è il sentimento di dipendenza psicologica, irrinunciabile il progetto di vita intrapreso, pesante il senso di subordinazione o insuperabile il condizionamento materiale ed economico: la vittima ritiene comunque di dover accettare o di non poter o saper rompere il rapporto».
Questa condizione di particolare fragilità e di particolare vulnerabilità della vittima è alla base del più grave trattamento sanzionatorio previsto dal reato di maltrattamenti, rispetto a quello di atti persecutori.
Il giudice, spesso, si trova a dover distinguere il confine fra i due reati poiché, talvolta, i comportamenti maltrattanti iniziano fra persone legate da rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, convivenza e rapporti di coniugio e proseguono sotto forma di atti persecutori, dopo l’interruzione della relazione affettiva e della convivenza.
Per capire quale reato è stato compiuto, il giudice deve operare un doppio accertamento al momento della consumazione delle violenze: quello preliminare, circa l’esistenza di una «convivenza» e quello successivo, circa l’effettiva interruzione della convivenza.
Si tratta, quindi, di verificare fino a quando si può parlare di comportamenti realizzati ai danni di una persona della famiglia, o convivente, e quando invece tale condizione non possa più ritenersi esistente, ravvisando il reato, meno grave, degli atti persecutori.
La differenza è da individuare nella “cessazione della convivenza”, non intesa in senso stretto quale mera interruzione della coabitazione, ma nella più ampia interruzione dei vincoli derivanti dal precedente rapporto tra le parti, cioè al di là dell’interruzione della coabitazione le parti non devono più mantenere legami integri e abituali per potersi configurare il reato di atti persecutori.
Si parla di cessazione della convivenza, con conseguente applicazione della fattispecie di cui all’art. 612 bis (delitto di atti persecutori aggravato), quando la persona offesa abbia effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante; laddove, invece, la persona offesa continui ad esserne privata, analogamente a quanto avveniva durante la convivenza, si applica la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia).
Pertanto, è da escludere il reato di maltrattamenti in famiglia ogni volta che la condotta criminosa si inserisca in un rapporto «ormai sgretolato e indebolito nella sua capacità di condizionare la vittima». Al contrario, il reato di maltrattamenti in famiglia opera in quei contesti affettivi in cui, per le più disparate ragioni, i soggetti coinvolti hanno mantenuto un rapporto di attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima.
La Cassazione, quindi, aggiunge un tassello in più ai fini dell’identificazione della fattispecie di reato di maltrattamenti o di atti persecutori: nei casi di cessazione della convivenza, è necessario verificare che tra l’autore del reato e la persona offesa non vi sia più quella consuetudine di vita che connotava il precedente rapporto, solo in tal senso sarà ravvisabile la fattispecie di atti persecutori e non il più grave reato dei maltrattamenti in famiglia.
Tuttavia, la verifica non sempre è agevole proprio per la fluidità e la complessità delle relazioni di coppia, e si complica ancor di più quando vi siano figli piccoli e provvedimenti giudiziari che impongono una loro gestione comune oppure la necessità di un tempo di assestamento ai fini della definizione dei pregressi rapporti affettivi, specialmente quando siano stati prolungati e la chiusura sia recente.